lunedì 25 dicembre 2023

U focu di Natale dei carusi da Muntagna

C’è una tradizione muntagnara nel cuore di tutti: il falò della novena di Natale. Giovani e anziani. Donne e uomini. Fedeli o semplici amanti delle usanze di una volta. Tutti sono rapiti dalla magia del fuoco che brucia gli arbusti portati ogni mattina nella piazza della chiesa da valenti ragazzi che, fino alla notte di Natale, si svegliano all’alba per andarli a raccogliere.

Abbigliati come un incrocio fra un boscaiolo e un guerrigliero delle foreste dell’America Latina, con ammirabile spirito di sacrificio, varie generazioni di carusi del nostro paese hanno reso possibile il protrarsi di questo meraviglioso rito.

Ogni anno, finita la messa, grazie a loro riparte puntuale il crepitìo delle fiamme che si mescola al vociare sommesso dei fedeli che hanno assistito alla funzione religiosa. Il calore del fuoco che ristora i paesani infreddoliti e ne illumina i volti mentre si fermano per qualche minuto ad ammirare la maestosità di quello spettacolo vecchio come il mondo. Poi, piano piano, tutti si rimettono in moto pronti ad affrontare la giornata: lavoro o scuola che sia. Appuntamento al giorno dopo. Pillole quotidiane dell’atmosfera del Natale che si avvicina.

Fino alla notte più bella. I carusi si fanno in quattro per preparare uno spettacolo persino superiore a  quello che hanno offerto nei giorni precedenti. Mentre il sacerdote dice messa e il bambinello sta per venire al mondo, loro riscaldano l’ambiente per i paesani meno religiosi rimasti lì fuori (e intervenuti per puro spirito di aggregazione) alimentando di tanto in tanto le fiamme con rami e foglie. Il falò è pronto a divampare ma i ragazzi lo tengono a bada. “Compare, sta calmu chi ancora nun è ura”, sembrano dirgli. Quello prova a replicare, borbotta, ma desiste.

Mezzanotte. I fedeli salutano la nascita del salvatore e cominciano a uscire ammassandosi ai margini della piazza mischiandosi con chi era già lì. Suonano le campane. È il segnale. I carusi si muovono all’unisono per dare libero sfogo alla voglia del falò di stupire, di ipnotizzare, quasi soggiogare i muntagnari. I quali prima provano istintivamente a resistergli, fanno gli indifferenti, si scambiano saluti e auguri. Ma poi, uno dopo l’altro, volgono lo sguardo verso quello spettacolo e ne cadono dolcemente preda. Si abbandonano completamente ad esso.

Anno dopo anno. Generazione dopo generazione. Sempre grazie a quei giovani boscaioli improvvisati che non chiedono nulla in cambio. Gli bastano quei cuori riscaldati e quei volti rischiarati dal loro falò.




martedì 17 gennaio 2023

Mia nonna Concetta

Certe volte la mente fa dei salti che sembrano illogici. Io, però, ormai mi sono convinto che ci sia un sottile filo che lega ricordi, musiche, odori e sensazioni che apparentemente non hanno nulla a che vedere fra loro. Diciamo che tutto ha un senso anche se spesso non lo capiamo.

Di recente stavo riascoltando una canzone degli Ocean Colour Scene, Better Day, uscita in piena esplosione del cosiddetto fenomeno britpop (che, considerato il grande livello delle band venute fuori in quegli anni, di suo è un nome abbastanza di merda per descriverle).

Insomma, mentre ascoltavo, senza alcun motivo spiegabile, mi è venuta in mente mia nonna Concetta, che di certo non sarebbe stata fan dei fratelli Gallagher. E quasi automaticamente ho riflettuto sul fatto che, sì, ogni tanto penso a lei con affetto, ma non quanto dovrei e meriterebbe. E questa è probabilmente la "colpa" che tutti noi, chi più, chi meno, abbiamo nei confronti di chi ci ha voluto bene e, ad un certo punto del nostro cammino, se n'è dovuto andare. Siamo così  travolti dalle nostre giornate che non riusciamo a fermarci a pensare e ricordare adeguatamente chi lo meriterebbe.

La canzone andava avanti, e adesso avevo anche il viso di mia nonna davanti agli occhi. Poi, dal nulla, la mente si è spostata su Jovanotti. Ma non su Lorenzo Cherubini, pseudo-cantautore italiano che oggi fa i concerti sulle spiagge, no. Io mi sono proprio ricordato di quel Jovanotti "scemo" che tanto mi piaceva da bambino, quando andavo alle elementari. Quello di Gimme five, E' qui la festa? e La mia moto. Quello che aveva il cappellino con la scritta Yo e la camicia con le stelle. Quello che, al solo pensiero della risata idiota, oggi prenderei una mazza ferrata mentre allora cercavo pure di imitarla. Quello che pubblicò anche un paio di singoli con lo pseudonimo di Gino Latino, interpretando il personaggio come se fosse stato un altro cantante e tutto il resto...

Mia nonna mi aiutava a vestirmi la mattina, dicendomi di sbrigarmi per non fare tardi a scuola, e io canticchiavo "Gimme five, all right!", mia nonna mi preparava la merenda e io mettevo la cassetta di Jovanotti. Mia nonna cominciava già nel pomeriggio a prepare per la cena e io, seduto in cucina di fianco a lei, facevo i compiti e cantavo ripetutamente "My name is Gino...Latino!".

Ad un certo punto, come se fosse stata scossa da qualcosa, si voltò di scatto e mi interrogò: - che hai detto?

- Niente..., risposi quasi impaurito (hai visto mai che magari mi mollava un ceffone per qualche monelleria che non riuscivo ad identificare...)

- No, quello che stavi cantando...che hai detto?

- My...name is...Gino Latino

Mi guardò con quella sua tipica espressione, a metà fra il divertito e lo sdegnato, di quando ne combinavo qualcuna: - forse intendi Gino LATILLA (per lei, musicalmente, poteva esistere solo quel Gino, ovviamente)

- No, no, è Gino Latino

- Ma quali Latino...si chiama Gino Latilla

- No, nonna, si chiama Gino Latino

- Latilla

- Latino

- Ora vinni chi si chiama Latino...u nomi è L-a-t-i-l-l-a 

- Nonna ma se ti dico che si chiama Latino!

La risoluzione della controversia fu suo appannaggio. E' riaffiorata dal mio subconscio proprio mentre vagavo fra le note di Better Day e i ricordi infantili di Jovanotti. E mi viene da ridere ancora adesso, pensandoci. Una sentenza fulminante che non lasciava possibilità di appello, un colpo da kappaò tecnico. E mia nonna Concetta - che spero stia sorridendo con me adesso - era campionessa indiscussa in questo.

Fece un attimo di silenzio e poi, con l'atteggiamento di chi ha di meglio da fare e non intende infierire, concluse: - vatinni, va', babbu

venerdì 9 dicembre 2022

Claudio du bar

 

Se fosse nato a New York invece che 'a Muntagna, Claudio sarebbe diventato un rapper che Eminem e Puff Daddy scansateve proprio.

A Montagnareale, invece, Claudio lavorava nel bar del padre, Donn'Antoni, ai tempi in cui in paese c'era l'imbarazzo della scelta per attività di pasticceria e gelati artigianali di qualità. Oggi la fama delle sue abilità culinarie, frutto di anni di apprendimento sul campo, lo precede. Tutti in zona sanno che se in un determinato ristorante, bar o agriturismo ci lavora Claudio significa che il posto è di livello.

Ma, da ragazzo, colui che oggi è un artista in cucina aveva l'animo inquieto di uno che l'arte avrebbe voluto praticarla in altre forme. Lavorare nel bar del papà per dargli una mano con l'attività di famiglia - una scelta praticamente obbligata dalla cultura ereditaria siciliana - era qualcosa che gli andava stretto. Claudio era troppo avanti rispetto ai compaesani della sua età. E pertanto, facendo buon viso a cattivo gioco, il bar di Donn'Antoni divenne il suo palcoscenico, un posto intorno al quale, a certi orari della giornata, si radunavano molti giovani del paese. Ed era sempre uno spettacolo!

E' vero, i videogiochi di cui il locale era dotato erano un grosso catalizzatore dei più piccoli ma quando era il turno di Donn'Antoni, bravissima persona, al massimo entravi, ti facevi una partitina e dopo il game over andavi subito via. Mentre quando sapevi che c'era Claudio era tutta un'altra storia: le ore volavano che neanche te ne accorgevi.

La clientela, di fatto, era perfettamente ripartita in base al barista e il bar veniva identificato in modo diverso in base all'età di chi lo menzionava: i muntagnari di una certa età vi si riferivano chiamandolo u bar di Donn'Antoni mentre per bambini e ragazzi era, ovviamente, u bar di Claudio. E sembrava veramente che il posto si trasformasse nell'uno o nell'altro durante la giornata. 

Nel bar di Donn'Antoni l'atmosfera era come ovattata (e no, non ci stiamo riferendo al tasso alcolico determinato dalle barbette bevute a ripetizione da alcuni avventori). Persino la luce sembrava più fioca, quasi priva di forza. In quel momento era il locale dove il paesano, fra una preoccupazione e l'altra, stanco dopo una giornata di lavoro, si beveva una cosa e faceva due chiacchiere (ma a volte preferiva stare addirittura in silenzio) prima di tornare a casa. D'altro canto, ad una certa età, dopo dieci ore di fatica, con tutti i problemi che ti ritrovi ad affrontare, hai poca voglia di ridere e scherzare. Perché, mentre sorseggi il tuo bicchierino di vino o di birra, il pensiero fisso è che domani bisogna tornare a spaccarsi la schiena per portare a casa la pagnotta.

Di contro, nelle ore in cui diventavano u bar di Claudio, come nelle favole, il vano principale e la saletta adiacente si convertivano in un luna park. Videogiochi che macinavano, in piena attività, ma anche battute, risate e musica. Tanta musica. E sull'argomento Claudio era avanti, lo abbiamo detto. Mentre noi al massimo arrivavamo a Cristina D'Avena o al Jovanotti di Gimme Five, lui nello stereo portatile grigio a doppia piastra collocato fra il bancone e la cassa - in uno spazio che era diventato di fatto la sua consolle - sparava i Run DMC, i Beastie Boys e Derek B con la cassetta della compilation Dee-Jay Rap. E mentre la musica andava lui ci cantava pure sopra come un consumato gangsta rapper.

E non importa che i suoi rap fossero parole a caso che somigliavano all'inglese ma di fatto non erano né inglese né nessun'altra lingua conosciuta (e comunque lo aveva fatto anche Celentano in Prisencolinensinainciusol e nessuno si era mai lamentato). Tutti noi osservavamo le sue performance in estasi: era qualcosa che 'a Muntagna non si era mai visto né sentito. E volevamo assolutamente sapere e vedere di più. Claudio per noi era una specie di predicatore di modernità. I Litfiba, per esempio, dovrebbero ringraziarlo per il successo avuto in Sicilia: se non ci fosse stato Claudio con la cassettina di El Diablo perennemente a palla nel bar, probabilmente oggi da noi sarebbero dei perfetti sconosciuti.

Lui a volte, quando rappava, si registrava pure (quello stereo portatile poteva fare anche da studio di registrazione) e provava a coinvolgerci. Ma eravamo così impediti rispetto al suo ritmo e alla sua capacità di improvvisare che al massimo ci veniva fuori un ridicolo yeah! che ripetevamo un paio di volte di seguito fino a che Claudio era costretto ad interrompere la registrazione e a liquidarci con un bonario lassammu perdiri, va

Ma non era uno che si faceva prendere dalla collera. Mai. Neanche quando Luca lo stuzzicava. O meglio, quando gli rompeva le palle come fanno tutti i bambini con i ragazzi più grandi. Quello lo punzecchiava, si avvicinava, gli toccava il braccio e correva a distanza di sicurezza, lo sfidava col suo cavallo di battaglia: "ichisiiii". Claudio, allora, si produceva nella sua famosa imitazione del milanese (quantomeno del milanese secondo noi siciliani) e, con quell'accento, gli rispondeva: "se continui, tra due secondi ti faccio due mosse da heavy metal...". Ora, nonostante l'heavy metal non fosse uno stile di lotta, noi conoscevamo alla perfezione il vocabolario di Claudio e sapevamo cosa sarebbe venuto dopo. Lo sapeva pure Luca che si divertiva un mondo e insisteva fino a che il barista non si trasformava nell'"heavy metal", se lo caricava sulle spalle (allora era possibile, ci chiediamo cosa succederebbe se ci provasse adesso...) e lo faceva girare fino a fargli venire le vertigini. Il bambino, che con le sue provocazioni cercava proprio quel divertimento, lo implorava ridendo di gusto: "aiutuuu, va bene, va bene, fammi scinniri, chiedo perdono!". Era la parola d'ordine con cui si fermava il gioco senza alcuna ulteriore conseguenza.

Poi arrivava Donn'Antoni, Claudio, da bravo figlio, tornava serio, la musica calava subito di volume e l'ambiente si preparava ad ospitare i grandi e gli anziani. Noi ce ne andavamo a casa sorridenti, pensando a quanto Claudio fosse avanti.



venerdì 2 dicembre 2022

I quiz radiofonici, Don Mario e i suoi eredi

In principio fu Radio Monte Ilici. Nella meravigliosa epoca delle radio libere, quando per trasmettere "bastava" piantare un'antenna e cominciare a parlare a un microfono, in un paesino come il nostro nacque una piccola realtà mediatica che irradiava musica e parole, rendendo anche un servizio alla comunità con informazione locale e intrattenimento.

Poi fu la volta di Radio Stereo Time, figlia dell'entusiastica iniziativa di Sebastiano - per tutti i muntagnari Bastianu - che insieme ad alcuni coetanei (con i quali condivideva la stessa positiva "follia"), ad un certo punto, ebbe l'idea di creare un'alternativa più giovanile alla Radio Monte Ilici di quegli anni. Il nome scelto, in inglese, in effetti mise subito in chiaro le intenzioni dei nostri prodi.

Così, per un po' di anni, ci trovammo in casa ben due stazioni radiofoniche, in amichevole concorrenza fra di loro, che rappresentavano un meraviglioso passatempo e un mezzo di espressione per quei ragazzi che giocavano a fare i dee-jay. Certo, i risultati a volte erano di un livello che definire "dilettantistico" sarebbe un eufemismo. Per esempio, da quell'esperienza sono state consegnate alla storia frasi come "e ci abbiamo ascoltato questo brano di...". Ma era bello lo stesso. O, forse, era bello proprio per questo.

Con il lancio di Radio Stereo Time, l'offerta di programmi di intrattenimento per i muntagnari e per gli abitanti delle altre zone coperte dal segnale raddoppiava. Spesso si trattava di repliche infinite della stessa formula, è vero. Ma la gente adorava telefonare in radio per richiedere le proprie canzoni preferite (selezionandole come si faceva mettendo una monetina nel juke-box, in pratica) e affidare all'improvvisato speaker di turno il compito di leggere la dedica per la fidanzata, la mamma o gli amici. Mica potevi chiamare RDS o Radio Dee-Jay per chiedergli di mettere l'ultimo pezzo di Scialpi o dei Duran Duran e dedicarlo "da panna per fragola con amore. Ci vediamo alle sei al solito posto". Se il povero paesano - che voleva solo esprimere i propri sentimenti nei confronti della sua ragazza usando lo stratagemma dei nomi in codice per evitare che il padre di lei lo scoprisse e gli spaccasse la schiena - lo avesse fatto, come minimo quelli all'altro capo del telefono avrebbero chiamato i carabinieri o la neuro. Nelle radio libere di paese, invece, no. Era tutto più intimo, quasi familiare. Ed è normale affidare a un familiare la consegna di un messaggio d'affetto.

Un'altra specialità della casa erano i giochi a premi, comunemente chiamati quiz radiofonici. Sulla scia del successo decennale di quelli televisivi, nel corso degli anni sia Monte Ilici che Stereo Time ne proposero svariati.

Nella radio di Bastianu, il Mike Bongiorno locale all'inizio fu Don Mariu du bar. Il noto pasticciere del paese, oltre ad essere un maestro dei dolci, aveva anche il coraggio e la capacità di disimpegnarsi con cuffie e microfono. Talvolta sgrammaticato, magari, ma comunque sempre padrone della situazione. Disinvolto nell'interagire con gli ascoltatori che chiamavano per provare a risolvere i rompicapo che il conduttore proponeva durante il programma e vincere così uno dei premi in palio. Fra una telefonata e l'altra, poi, Don Mario lanciava anche qualche pezzo di liscio molto apprezzato dagli ascoltatori di una certa età, fedeli seguaci della trasmissione. Ma la musica non inganni. Ad ascoltare Don Mario c'erano anche ragazzi e bambini. Potremmo dire che il suo era un programma per famiglie. 

Certo, a volte qualche giovinastro si divertiva a fare uno scherzo al conduttore ma l'ira funesta di quest'ultimo si abbatteva su di lui. Come quella sera in cui un fantomatico concorrente, per fare lo spiritoso, rispose che l'oggetto misterioso da indovinare era "u ***** chi ti norba". Bastarono due parole di Don Mariu pronunciate con un tono leggermente più alto perché quello staccasse immediatamente il telefono e andasse a nascondersi sperando di non essere stato riconosciuto. D'altro canto, quando il barista del paese si arrabbiava, bastava un suo urlo da dentro il bar perché la gente sotto l'albero si ammutolisse e gli uccelli sui rami smettessero di cinguettare. 

Un altro momento magico del quiz di Don Mario fu la chiamata di quell'ascoltatore che tentò di indovinare l'animale misterioso. Il presentatore volle dargli un aiutino e gli rivelò la prima lettera: "fai bene attenzione: l'animale comincia con la P". Il concorrente a casa ci pensò su qualche secondo e poi - forse un po' dubbioso, sì, ma che diamine, bisogna buttarsi per tentare la fortuna! - concluse: "Ma chi è per casu, u Popotimu??".

Anni dopo, nel 1994, quando il barista si era ritirato ormai da un pezzo dalla carriera radiofonica, toccò a una squadra di ragazzi provare a far rivivere i fasti del gioco a premi. Impresa ardua che ebbe un discreto successo pur non arrivando a eguagliare i risultati di pubblico dell'originale. D'altro canto, il tentativo di emulazione venne affidato a ben sei elementi, che conducevano tutti insieme creando, a tratti, anche una discreta confusione. E già questo ci fornisce un dato oggettivo: per fare un Don Mario ci volevano almeno sei picciotti moderni.

Inoltre, il revival del gioco a premi venne proposto solo nel periodo di Natale come appuntamento speciale. Inutile dire che anche questa trasmissione si rivelò una miniera di perle indelebili. Il momento più alto venne probabilmente raggiunto con la bocciatura da parte di uno degli speaker di una risposta assolutamente corretta fornita da un concorrente. Il gioco verteva su domande di cultura generale in stile Trivial Pursuit. Vabbè, non prendiamoci in giro: per fare le domande i conduttori usavano proprio le carte del Trivial Pursuit. Com'è noto, i quesiti si basavano su varie categorie: scienze, storia, sport, ecc. Bene, se pensate che il presentatore che fa domande di cultura generale debba essere almeno minimamente ferrato in cultura generale, sappiate che date le cose troppo per scontato.
Ad un certo punto, infatti, arrivò la chiamata di Massimiliano da Montagnareale (ricordatevi che il segnale arrivava anche fuori dal paese) Uno dei magnifici sei, lasciato un po' in disparte durante le ultime telefonate, si era prenotato poco prima per interagire col seguente ascoltatore. E quindi: "Ciao Massimiliano, che categoria scegli per giocare?". Quello scelse storia. "Bene, mi sai dire chi era il Presidente della Repubblica nel 1982? Pensaci bene...". E quello, senza perdere un secondo di più, rispose sicuro che era Sandro Pertini. Tutto bene, direte voi. Adesso gli dice che ha indovinato e che ha vinto un premio. Ma voi date le cose troppo per scontato, come detto.
Si dà il caso che il conduttore in questione avesse il vizio di tenere in mano non solo la carta della disciplina scelta ma anche tutte le altre. Se poi ci mettiamo anche che aveva qualche lacuna in storia (fra le altre materie), potrete facilmente immaginare cosa avvenne dopo.
Nella concitazione del momento, la carta con le domande di sport si era fatalmente sovrapposta a quella di storia: "Nooooo, purtroppo hai sbagliato! Peccato! La risposta esatta era Sandro Mazzola!". Nello studio e a casa di Massimiliano scese il gelo. Per qualche interminabile secondo nessuno parlò. Subito dopo, come se si fossero ridestati all'unisono dall'ibernazione, gli altri cinque cominciarono a gesticolare sperando che il collega capisse l'errore e si correggesse. Ma il novello Gerry Scotti (o Piero Angela, se volete) si limitava a guardarli con un gigantesco punto interrogativo stampato in faccia. Alla fine, uno degli altri conduttori si riprese dallo shock e provò a millantare, emettendo una risatina nervosa, una poco credibile burla ai danni dell'ascoltatore, proclamandolo vincitore prima di lanciare in fretta e furia la pubblicità. 

Scherzi della diretta, direbbe qualcuno. Per fortuna ci pensò la mamma di Bastianu, la signora Anna, a premiare le fatiche dei nostri. La sera dopo l'ultima puntata, andata in onda un paio di giorni prima di Natale, sfoderando la proverbiale ospitalità delle mamme della sua generazione, invitò tutto lo staff a casa a mangiare pasticcini e brindare per celebrare un'esperienza dai risvolti spesso comici, sì, ma in cui ognuno metteva il cuore.



giovedì 24 dicembre 2020

Natale 'a Muntagna

Per me Natale è sempre stato la famiglia, u focu davanti a Chiesa, le vacanze spensierate, gli amici. Da piccolo, a dire il vero, anche le bombette, che chi ne comprava un pacco intero per capodanno ma, nel frattempo, le sparava in giro si sentiva u megghiu.

Ogni volta che penso a questo periodo, non so perché ma, prima di qualunque altro, mi viene subito in mente un episodio, in sé apparentemente privo di un significato particolare. Uno dei tanti momenti che, se vogliamo, sembra anche piuttosto banale rispetto ad altre occasioni di convivialità e spensieratezza tipiche delle festività natalizie.

In paese c'è fermento perché i carusi chiu ranni stanno raccogliendo la legna da usare per il falò della notte di Natale (o comunque per uno dei giorni di novena, non ricordo). Fanno su e giù con la macchina di quelli che, fra di loro, hanno già la patente. Caricano e scaricano. Si sente un gran vociare anche da casa mia.

Dopo aver passato qualche ora a casa ad ascoltare vinili con lo stereo di mio papà (ne avevo un paio miei e non facevo altro che editare e ri-editare compilation fai-da-te cercando di mixare le canzoni usando il play e pausa della piastra) e dopo aver registrato un qualche programma radiofonico in cui un tizio riassumeva i migliori pezzi dell'anno, esco anch'io.

L'atmosfera sembra quella del sabato del villaggio di Leopardi a-la-muntagnara.

Arrivo a Santa Caterina ma non trovo nessuno. Evidentemente anche i miei coetanei sono in piazzetta a fare da chiassoso contorno al lavoro di' chiu ranni (e magari a sparare qualche bombetta vantandosi della propria capacità di correre rischi temerari...). Passa Domenico con la 112, vestito da boscaiolo per l'occasione. Lo fermo e gli chiedo un passaggio offrendogli in prestito la mia ultima cassetta contenente il programma con le canzoni dell'anno presentato dal tizio di cui sopra. Acconsente, mi fa salire e mette subito il nastro nell'autoradio. (Quando qualcuno ascoltava le cassette che editavo, mi sembrava come se stesse ascoltando musica fatta da me e, in un certo senso, ne ero fiero...). Mi dice: "sì, ma chistu parra troppu supra a musica". Come dargli torto, quello riusciva a parlare anche per un minuto e mezzo di fila sulla stessa canzone!

Arriviamo davanti alla Chiesa, scendo. La casa di pietra che si affaccia sulla piazzetta, l'arco, la stradina stretta, i rami e le foglie accumulate a mucchietti per terra, un fuocherello già acceso, i carusi ranni vestiti da taglialegna, la luce soffusa, le risate e i botti: quello è il presepe che mi è sempre rimasto in testa. Quello è il mio Natale.

Più volte mi sono chiesto perché, al pensiero del Natale da piccolo 'a Muntagna, mi scatta automaticamente questo "banale" ricordo prima di tutti gli altri che conservo con affetto.

Una risposta, alla fine, l'ho trovata: la semplicità. Quella che da bambini ci sembra persino noiosa.  Che da ragazzini, a volte, addirittura avversiamo perché - anche giustamente - vogliamo di più. E che da adulti, nei momenti di difficoltà come quello che stiamo attraversando, ti fa dire: eravamo così felici e non lo sapevamo.

Buon Natale a tutti.

martedì 17 dicembre 2019

Patri Vasta

Padre Nunzio Vasta, anzi, Patri Vasta, come tutti lo chiamavamo, è stato per tanti anni il parroco del paese. Negli anni a cui risalgono i miei primi ricordi, lui era già u parrinu. E lo è stato per tutta la mia infanzia, catechismo compreso. Per quanto mi riguarda, quindi, si tratta di una di quelle persone che è entrata di diritto nel pantheon dei simboli da' Muntagna.

Di Patri Vasta ho ancora nelle orecchie il richiamo che ci indicava che il tempo per il gioco era finito e dovevamo recarci nella sala parrocchiale per il catechismo. Quel suo eentriaaamooo pronunciato dalla soglia della porta quasi come una litania. E custodisco con affetto parecchi aneddoti, alcuni anche particolarmente divertenti. 

Come quella volta in cui mi diede un ceffone per aver fatto una battuta sul battesimo. 
Un sabato, durante la dottrina, il parroco ci stava spiegando l'importanza di questo sacramento. E lo faceva con trasporto. Un paio d'anni prima era nato mio fratello minore. Così, con il tipico atteggiamento del moccioso che vuole fare il simpatico del gruppo, ad un certo punto chiosai che era tutto chiaro perché "pure a mio fratello ci ficinu u sciampu". Non l'avessi mai detto! Mi fulminò con un "come ti permetti?" proferito a una quantità di decibel fuori norma e mi mollò un cinculiri che mi convinse immediatamente a riconsiderare la posizione da giullare improvvisato che avevo assunto poco prima.
Certo, erano altri tempi. Molto probabilmente un prete di oggi richiamerebbe un bambino solo verbalmente. Ma Patri Vasta - badate bene - non era affatto un tipo manesco (sinceramente non ricordo nessun altro episodio del genere), tutt'altro: era una persona solitamente mite. Solo che quella volta toccai un concetto troppo elevato e troppo importante per un credente. In Chiesa, cioè nella casa dei credenti. Non dico che fece bene ma riconosco che sicuramente ebbe le sue motivazioni. In gergo tecnico, si direbbe che ci scippau di mani.
E la parte divertente è il ricordo che ne ho oggi. Soprattutto quello della rapida sequenza in cui si consumò il tutto: io che penso di essere u scattru del gruppo e dico la mia a bruciapelo; lui che, assorto nella spiegazione teologica, viene improvvisamente riportato su un piano decisamente terreno, tanto da spalancare gli occhi come se gli avessi dato un pugno nello stomaco; l'accesa risposta che ne segue e la consegna quasi contemporanea della "banconota". Sempre in gergo tecnico: 'o scancila a banca.

Quando ci ripenso, non riesco a non ridere. E provo solo affetto e simpatia nei suoi confronti.

Oppure c'è stata quell'altra volta in cui chiese a noi bambini del catechismo di vendere ognuno un blocchetto di biglietti della Festa Madonna delle Grazie del 15 agosto. Per ogni blocchetto venduto - cento biglietti dal costo di mille lire ciascuno - ci avrebbe riconosciuto un premio di diecimila lire. Wow! A livello commerciale, un venditore professionale direbbe che si tratta di un obiettivo molto motivante. Qualcuno, però, vide l'impresa come una montagna difficile da scalare, che magari fai uno sforzo immane per arrivare in cima e poi, quando sei a pochi passi dal traguardo, inciampi e ruzzoli di nuovo giù. Quindi venne posta la domanda: "Patri Vasta, ma se per caso li vendiamo quasi tutti e, per pochissimi biglietti - quattro o cinque, diciamo -, non arriviamo a completare il blocchetto, il premio ce lo da lo stesso?". Lui, con quel suo fare rassicurante, sguardo sorridente e voce calma (che era, in genere, il suo atteggiamento naturale) rispose: "Se non riuscite a finire il blocchetto e vi rimangono pochissimi tagliandi, state tranquilli: il premio lo riceverete lo stesso". Una risposta accolta con grande favore da parte dei pargoli. Evviva Patri Vasta! Mettiamoci subito al lavoro!
Quell'estate feci letteralmente i numeri per guadagnarmi quelle diecimila lire. Girai parenti, amici, conoscenti - due volte, se necessario - e chiesi pure a mio padre di procacciarmi dei clienti fra i suoi colleghi. Ma non era abbastanza. Allora feci gli straordinari anche il giorno della festa, dato che la consegna ufficiale del blocco era la sera, alla fine della processione. Lo sforzo produsse un risultato invidiabile di novantasette biglietti venduti su cento. Memore delle rassicurazioni del curato, mi recai soddisfatto all'appuntamento fissato per tirare le somme e riscuotere il premio. Esordii dicendo che avevo fatto del mio meglio ma mi erano rimasti solo tre tagliandi..."ma lei ci diceva che andava bene lo stesso no, Patri Vasta?". Lui mi sorrise bonario, mi guardò e mi disse di non preoccuparmi. E con il fare rassicurante di cui sopra cominciò a contare le banconote che mi stava per consegnare: "mille, duemila...cinquemila, seimila, settemila...". Poi il conto si fermò un attimo. Giusto il tempo di staccare i tre biglietti che erano rimasti nel blocchetto che gli avevo appena restituito. Li aggiunse alle banconote e concluse: "e con questi tre fanno diecimila lire precise, bravissimo, ottimo lavoro...".

Quando si dice che le parrocchie di provincia non hanno tante risorse e devono arrangiarsi come possono. Fu in quel momento che maturai la convinzione che al clero non la si fa! Se prendessimo in prestito il lessico calcistico, potremmo raccontare che Patri Vasta era riuscito a mettere a segno nel recupero la rete della vittoria, con una giocata che Maradona scansati: un grande! Che ridere!

Un'altra volta fu tenerissimo. E questo è uno degli episodi che mi rimangono nel cuore. Nel periodo di carnevale organizzò una mattinata di giochi nella piazzetta davanti alla Chiesa. Una specie di gara a prove (di abilità, equilibrio, velocità, ecc.) che conferivano ai partecipanti una serie di punti. Chi, alla fine, avrebbe totalizzato il punteggio più alto sarebbe stato premiato durante la festa in maschera che il parroco aveva organizzato per noi bambini, nel pomeriggio, in sala parrocchiale. Solo che il meccanismo di calcolo dei punti non ci era stato svelato. E secondo me realmente non esisteva neppure: ce lo aveva detto solo per motivarci a dare il massimo. Quella mattina, i partecipanti eravamo pochini, a dire il vero. I due più grandicelli eravamo io e Nino che facevamo categoria a parte. E non me l'ero cavata male ma, in cuor mio, credevo che Nino fosse andato leggermente meglio in alcune prove. Nonostante ci affannassimo sperando di conoscere in anticipo il verdetto della giuria (composta, per l'occasione, da Patri, Nunzio Vasta: uno e trino), u parrinu non proferì parola e si limitò a darci appuntamento al pomeriggio. Alla festa, quindi, dopo i convenevoli di rito (fra patatine, coca-cola e musica) e la consegna di un piccolo dono a tutti gli altri partecipanti, io e Nino ci avvicinammo al prete e, impazienti, lo sollecitammo: "Patri Vasta...ma insomma...chi ha vinto?". Ci guardò con un'espressione di sincera felicità - che ho davanti agli occhi anche qui e ora - con lo sguardo ridanciano che mandava a monte il maldestro tentativo di creare suspense e, piuttosto, rendeva evidente che non vedeva l'ora di darci quell'informazione tanto quanto noi non vedevamo l'ora di riceverla. Rullo di tamburi: "Ha vinto...ha vinto...tu!" indicando Nino, e immediatamente, senza neanche darmi il tempo di rimanere deluso, "...e tu!" indicando anche me. Fu una soddisfazione di quelle che a un bambino fanno bene. Perché gli danno una spinta positiva nel processo di acquisizione di un posto nel mondo che è in corso a quell'età. Dalla gioia, io e Nino ci mettemmo a correre e saltare per la stanza e lo ringraziammo mille volte quando ci consegnò i giocattoli che aveva comprato come premio.

Ora, il giocattolo non lo ricordo per niente, la felicità che mi regalò invece sì, fino all'ultima goccia.



venerdì 25 ottobre 2019

La Sagra della Castagna

La Sagra della Castagna è il fiore all'occhiello di Montagnareale, piccola comunità in provincia di Messina. Ogni anno, da generazioni, la gente del paesino si rimbocca le maniche per vestire a festa il piccolo centro ed offrire qualcosa di diverso - di suggestivo, se vogliamo - per l'ultima domenica di ottobre.
Con l'organizzazione e la realizzazione della sagra, i paesani hanno sempre voluto dimostrare al resto della provincia, e della Sicilia in generale, che ci siamo anche noi. Che anche noi siamo in grado di creare un evento. Che anche noi vogliamo riservare a chi viene a trovarci quell'ospitalità tipicamente siciliana che ci contraddistingue.
I "non più giovani" ricorderanno che, da bambini, nelle settimane precedenti alla sagra c'era fermento e si respirava già l'aria della festa che si sarebbe tenuta l'ultima domenica di ottobre. Di fatto, ragazzi e adulti del paese si trasformavano in artisti (sì, nessuna esagerazione: veri e propri artisti) e dalle loro idee prendevano forma le decorazioni che avrebbero stupito il pubblico a fine mese. Bandiere, archi, colori, composizioni con rami e foglie di castagno ad abbellire le vie del centro. Una volta persino una copia del David di Donatello eretta davanti al bar! D'altro canto, ogni paesino che si rispetti deve essere anche un po' (meravigliosamente) pacchiano, no?
E poi arrivava quella domenica. Alcuni volontari sudavano davanti al fuoco per tutto il pomeriggio e fino a tarda sera per offrire, sempre con il sorriso sulle labbra, caldarroste gratuite alla lunghissima fila di persone in attesa. Altri facevano su e giù per il paese per verificare che tutto fosse a posto con le luci, la musica, le bancarelle, lo smaltimento del traffico. Altri ancora si occupavano della gestione del concorso delle torte e della distribuzione degli assaggi ai visitatori. Niente soldi. Solo passione e orgoglio paesano.
Quello stesso orgoglio con cui, oggi, quelli che hanno dovuto lasciare il paese per cercare fortuna altrove raccontano la Sagra a chi non la conosce.