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lunedì 10 giugno 2019

Italia - Australia


Ieri, la straordinaria vittoria delle azzurre al 95' contro l'Australia, nell'esordio dei mondiali femminili, ha riportato alla mente un'altra vittoria, contro la stessa nazionale, nei mondiali maschili del 2006, che ci avrebbe lanciato poi nella cavalcata verso la conquista della coppa. In quel caso, a regolare i conti con gli australiani era stato un rigore trasformato da Francesco Totti, dopo una partita di grande sofferenza, giocata in dieci uomini per quasi tutto il secondo tempo.

Mentre tutte le altre partite di quel torneo le vidi a Milano insieme ad alcuni amici nell'appartamento in Porta Romana dove vivevo allora, festeggiando la vittoria finale in piazza del Duomo in mezzo alla marea di tifosi in visibilio, quella gara in particolare la ricordo per essere stata l'unica vista in Sicilia, insieme alla mia famiglia. Mio padre stava molto male e io ero tornato qualche giorno per andarlo a trovare. Quell'anno ero stato in Sicilia più volte, inventandomi ogni genere di scusa, per dissimulare il fatto che ci andavo principalmente per lui. Forse anche in quel caso c'era stata qualche ragione secondaria per il mio viaggio, ma non ci giurerei. La mia mente era decisamente concentrata su altro all'epoca.

Vedemmo la partita in due stanze, per stare più larghi. Faceva parecchio caldo. Io facevo la spola fra la cucina, dove c'era mio fratello, e la mia camera da letto, dove c'era il resto della famiglia. Ricordo una tensione a mille. E ovviamente non dipendeva tutta dalla partita. Ma quelle due ore furono un momento di evasione dai nostri attuali problemi, per questo quel match mi è rimasto nel cuore. Compresa, ovviamente, l'esultanza sul rigore di Totti al 95'. Fu tanto liberatoria e sinceramente gioiosa.

Il bello del calcio sono i momenti che rimangono nella storia e nell'immaginario comune, ai quali ognuno di noi lega indissolubilmente ricordi ed emozioni personali. Ecco, io ricordo vividamente quell'Italia-Australia come uno degli ultimi veri momenti di felicità condivisi con mio padre. E per questo me lo tengo stretto.



lunedì 27 novembre 2017

Quando vincemmo la Coppa Intercontinentale in cameretta

Il gol di Del Piero al River Plate


Sono passati ben ventun anni dall'ultima Coppa dei Campioni e, di conseguenza, dall'ultima Coppa Intercontinentale vinta dalla Juventus. Una vera e propria ossessione per noi tifosi bianconeri! Un'intera generazione di juventini non ha mai visto la propria squadra sollevare quella coppa dalle grandi orecchie né tantomeno quella "dei due mondi" a cui accedevano - prima - solo le vincitrici della Champions League (Europa) e della Coppa Libertadores (Sudamerica).

Io mi ritengo fortunato. C'ero quando la Juve batté l'Ajax ai rigori e ricordo benissimo anche la mattina del 26 novembre 1996. Soprattutto, mi ritengo fortunato ad essere cresciuto negli anni in cui in bianconero si accendeva la stella di Alex Del Piero

Erano bei tempi. Al cinema Leonardo Di Caprio era un ragazzino imberbe che recitava in pellicole come Romeo+Giulietta e non era ancora salito sul Titanic.  I Metallica avevano appena "sconvolto" i fan più puri e duri tagliandosi i capelli e pubblicando Load, album dal sound decisamente poco "metal anni Ottanta". Ma a me piaceva - che potevo farci? - e in quel periodo, tutte le mattine, mentre mi vestivo, mettevo Until It Sleeps nello stereo. Come quel 26 di novembre, appunto.
La giornata era iniziata con il sole che si era dato malato. Sembrava che potesse venire a piovere e, certo, non era il massimo come presagio per la grande finale che si sarebbe giocata da lì a qualche ora.  Mio padre si stava facendo la barba, mentre fumava la sua consueta sigaretta mattutina (erano bei tempi, come detto, e c'era ancora anche lui che era in grado di fumare in qualunque situazione si trovasse, un vero e proprio "stacanovista della sigaretta"). 
Un breve saluto: "ti ricordi che oggi non vado a scuola perché la Juve gioca la finale dell'Intercontinentale in Giappone, vero?". Ovviamente, era stato lui ad accordarmi il permesso di saltare le lezioni per un giorno. "Sì, ma tanto perdete". In realtà era (stato) juventino anche lui ma si interessava poco di calcio e, soprattutto, adorava fare il bastian contrario
Dopo aver fatto gli scongiuri del caso, aver consumato una rapida colazione ed aver "impacchettato" il decoder di Tele+, ero pronto ad incontrare gli amici per il lungo pre-partita. Avremmo visto la gara a casa di Salvatore, che viveva nella parte alta del paese. Sì, perché nella provincia siciliana - prima dell'avvento del satellite - il segnale analogico della pay TV era molto scarso e qualcuno - come mio padre per me e mio fratello - pagava un abbonamento per vedere, male, solo un canale sui tre disponibili. Ma quella partita era troppo importante per rischiare gli eventuali capricci di un'antenna. Meglio spostarsi in una zona di quel piccolo centro collinare dove c'erano meno interferenze.

La Juve schierava uno squadrone: il capitano Peruzzi, Torricelli, Ferrara, Montero, Porrini, Di Livio, Deschamps, Zidane, Jugović, Del Piero, Bokšić. Ma anche il River Plate faceva paura: Bonano, Hernán Díaz, Celso Ayala, Berizzo, Sorín, Monserrat, il capitano Astrada, Berti, Enzo Francescoli (proprio l'idolo di Zinedine Zidane!), Ariel Ortega e Cruz. Che partita, ragazzi!

La voce del commentatore Marianella si sentiva molto distante, per via del collegamento telefonico che i chilometri di distanza fra Tokio e la Sicilia te li faceva notare tutti. La Juve si mostrava superiore al River per tutto il primo tempo. Conclusioni pericolose di uno scatenato quanto impreciso Bokšić (forse condizionato dagli anatemi lanciati da parte di un Salvatore particolarmente critico nei suoi confronti ​) ​e di Zidane, tutte respinte dalla difesa avversaria e da un Bonano in stato di grazia, che si ripeteva anche nel secondo tempo, uscendo in maniera provvidenziale ancora sull'attaccante croato, imbeccato da un'invenzione di Del Piero. Una sostanziale superiorità bianconera, interrotta solo dalla traversa velenosa di Ortega, a Peruzzi battuto, seguita dall'urlo di  terrore di noi tifosi stipati in camera di Salvatore.

Poi arrivò il momento che non avremmo più dimenticato per il resto della nostra vita: 36' del secondo tempo. Angolo per la Juve. Batte Di Livio. Zidane spizza di testa in area. Del Piero raccoglie la palla, si gira in maniera fulminea e scarica un gran destro all'incrocio. "Proprio lui: il principino!" - urlava Marianella mentre io, Nunzio e Salvatore impazzivamo di gioia a scapito dei mobili della camera di quest'ultimo!
Il River si buttava rabbiosamente in avanti in cerca del pareggio prestando il fianco al contropiede bianconero. Bokšić sbagliava l'impossibile (dando definitivamente ragione a Salvatore) e anche Di Livio falliva una grande occasione. Ma il risultato non sarebbe più cambiato. Al triplice fischio finale, erano solo abbracci di felicità. A Tokio come in Sicilia.

Del Piero venne nominato anche "man of the match" e ancora oggi non mi spiego come sia possibile che quell'anno non abbia vinto il Pallone d'Oro (si classificò addirittura quarto), assegnato invece a Sammer, un difensore. Considerato che, oltretutto, il prestigioso riconoscimento viene da sempre criticamente definito un "premio per attaccanti" e che, dall'anno della sua istituzione, lo aveva vinto solo un altro difensore - Franz Beckenbauer, per due volte - o che gente come Baresi, che lo avrebbe meritato in più occasioni durante la propria carriera, al massimo raggiungeva i gradini più bassi del podio (il milanista si piazzò secondo nel 1989), dietro ad attaccanti e fantasisti vari, ruoli prediletti dai giurati.

Per me, però, quella Coppa sarà sempre legata indissolubilmente al ricordo del gol del giovane numero 10 e dell'esultanza di tre tifosi, in una camera da letto diventata tribuna da stadio, per qualche ora, una mattina di novembre.