Quando ero bambino, il 2 novembre era un giorno speciale. Non solo perché era la "festa dei morti" e non si andava a scuola per andare a far visita ai propri cari al cimitero ma anche perché in Sicilia tradizione voleva che gli stessi, nella notte fra l'1 e il 2, portassero doni e dolci a chi si era comportato bene e carbone a chi invece era stato "monello".
Insomma una ricorrenza che andava a tutti gli effetti ad aggiungersi, per modalità e aspettative infantili, al Natale e che, per un bambino siciliano, era addirittura più importante e "remunerativa" della "Befana" (che al massimo, se andava bene, anche a causa della vicinanza col Natale, ti portava qualche dolce o poco più).
Lo scrittore Andrea Camilleri, che la racconta ne Il giorno dei morti, fa parte più della generazione dei miei nonni che di quella dei miei genitori, per cui è ovvio che fra i suoi "tempi" e i miei siano intercorsi parecchi mutamenti nelle usanze e nella mentalità. Ma la "festa dei morti" ha resistito nel tempo ed è rimasta una ricorrenza celebrata per decenni. E di fatto, con le dovute differenze - ogni tradizione che si rispetti viene comunque tramandata ed applicata in contesti sociali figli del proprio tempo - le aspettative, l'emozione e la felicità espressi dall'autore per la "visita" notturna dei propri defunti nella Porto Empedocle degli anni Trenta sono esattamente le stesse che provavo io in attesa dell'arrivo dei miei morti nella provincia messinese a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta.
Narra Camilleri: "Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi".
I nostri morti, molto lontani dall'immaginario horror di Halloween, non ci facevano affatto paura, anzi ci auguravamo che, oltre ai nonni, venissero eventualmente a farci visita anche altri anziani parenti acquisiti (prozii, bisnonni e chi più ne ha più ne metta), bontà loro! Perché ogni murtittu corrispondeva a un dono.
Prosegue lo scrittore: "Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio".
Noi invece non mettevamo il cesto. Io sicuramente no ma non ricordo nessuno dei miei coetanei che lo facesse. In generale dovevamo solo preoccuparci di andare a letto il prima possibile - poi, più grandicello, avrei capito che dal mio sonno dipendeva l'inizio della preparazione e dell'incartamento dei doni da parte dei miei genitori - e di addormentarci rapidamente. Questa sì, cosa assai più difficile, dato che, come descrive magistralmente Camilleri "eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto".
Ma alla fine, senza rendercene conto, crollavamo. "Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all'alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo".
Ecco, al di là dei singoli dettagli, la descrizione di Camilleri, se sei un quarantenne siciliano, è inebriante, ti entra dentro e ti attraversa, perché sembra che stia parlando proprio di te. In realtà è esattamente ciò che generazioni e generazioni di siciliani, da bambini, facevano, sentivano e provavano la mattina del 2 novembre, appena svegli.
Quando il peso della notte sugli occhi si dissolveva e mi rendevo conto che era già mattino, scattavo in piedi - che differenza rispetto a quando dovevo alzarmi dal letto per andare a scuola! - e insieme ai miei fratelli cominciavo la "caccia al tesoro". Anche se non c'era il cesto, infatti, la proverbiale giocosità dei morti era rimasta immutata nel corso degli anni. E andare in giro per casa ancora in pigiama in cerca di regali nascosti, e magari impazzire di gioia per aver scovato un pacchetto sotto al materasso, è uno dei miei ricordi infantili più vividi e belli.
"I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall'aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre".
Ogni epoca ha i suoi giocattoli. Ma io ricordo che qualche volta, con malcelato disappunto, ricevevo anche i classici "regali utili" (per esempio un maglione o una tuta o un paio di scarpe) e che mia madre mi diceva che me lo aveva portato il nonno di Montagna(reale) o quello di San Piero (Patti), che mi osservavano da lassù e conoscevano ogni mio desiderio e necessità. Certo, i doni più graditi erano i giocattoli, non ce n'è. Per esempio, ricordo un anno un pupazzetto del wrestling e un altro anno un He-Man per i quali i miei cari defunti meritarono una preghiera aggiuntiva quando, più tardi, andai a trovarli al cimitero (non che pensassi a loro solo materialisticamente ma ero piccolo e, ovvio, diciamo che il giocattolo rappresentava una motivazione in più).
Poi c'erano i dolci che, come racconta ancora Camilleri, "erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza".
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Le "ossa di morto" e la "frutta martorana" |
Non conosco "il pupo di zucchero" ma, insieme ai regali, non mancava mai 'na guantiera di "ossa di morto", biscottini tipici della commemorazione dei defunti a cui viene data la forma "spaventosa" di osso (Halloween in ogni caso ci faceva un baffo!), e la "frutta martorana", cioè il marzapane di cui parla anche l'autore. In realtà, pur mangiandoli, né io né i miei fratelli ci andavamo matti ma in compenso piacevano tanto ai nostri genitori, quindi i morti continuavano a portarceli ogni anno, a prescindere.
"A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo".
Spesso il 2 novembre c'era un bel sole, per cui, dopo aver portato dei fiori al cimitero e aver detto delle preghiere di ringraziamento ai nostri cari, ci attardavamo con i coetanei nella discesa verso la Chiesa di Santa Caterina o andavamo nella piazzetta o camminavamo per le vie del Paese e ci facevamo a vicenda un dettagliato rapporto su cosa avevamo trovato e su quale parente defunto ce lo avesse portato. Io mi sono sempre reputato molto fortunato perché la mattina, dedicata in genere ai parenti materni, scartavo i regali sia dei morti di mamma che di quelli di papà ma nel pomeriggio, quando ci recavamo al paese di quest'ultimo per far visita stavolta ai congiunti paterni, c'era sempre qualche altro dono che il nonno aveva lasciato per me e i miei fratelli anche a casa della nonna dopo essere passato a casa mia la notte precedente.
"Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine". E aggiungo che, almeno per un giorno, era come riaverli lì con noi, in carne ed ossa.
Per Camilleri, ad un certo punto però, arrivò Babbo Natale: "Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli".
Forse per la generazione dello scrittore agrigentino l'albero di Natale fece progressivamente "smarrire la strada" ai morti ma credo che, in qualche momento della storia successiva e in qualche modo, i defunti questa strada l'avessero alla fine ritrovata. Infatti, la mia generazione, che invece era nata identificando in Babbo Natale, nell'albero e e nelle relative strenne una consolidata tradizione (consumistica e pagana magari, ma pur sempre una tradizione), fu fortunata a poter accogliere nuovamente ogni anno "nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre" questi affettuosi congiunti che ci avevano tanto amato in vita e non si scordavano di noi bambini nemmeno dall'aldilà.
Leggendo la conclusione del racconto di Camilleri, però, ho sentito una sorta di retrogusto di "corsi e ricorsi storici": "Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire".
Sinceramente, da quando non sono più bambino (quantomeno anagraficamente), non so con certezza se la tradizione della "festa dei morti" si sia definitivamente persa o se continui in qualche modo nelle case siciliane. Ma lo dubito fortemente. Oggi, con la globalizzazione, si festeggia Halloween. Se chiedessi ai miei nipotini, oltre all'americanata del "dolcetto o scherzetto", probabilmente nessuno dei due mi saprebbe indicare un'altra "festa" che cade in questo periodo. E alla fine, riflettendoci, mi pare di capire e di sentire la stessa delusione che traspare dalle ultime righe del racconto dell'anziano scrittore. Pare proprio che la strada che i cari estinti percorrevano il 2 novembre per venirci a trovare e per portarci i loro doni - dove per un periodo si erano piantati alberi di Natale - oggi sia stata definitivamente chiusa per far spazio ad una più remunerativa piantagione di zucche.
(i testi di Andrea Camilleri sono tratti dal racconto breve "Il giorno dei Morti", dal libro "Racconti quotidiani")