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lunedì 25 dicembre 2023

U focu di Natale dei carusi da Muntagna

C’è una tradizione muntagnara nel cuore di tutti: il falò della novena di Natale. Giovani e anziani. Donne e uomini. Fedeli o semplici amanti delle usanze di una volta. Tutti sono rapiti dalla magia del fuoco che brucia gli arbusti portati ogni mattina nella piazza della chiesa da valenti ragazzi che, fino alla notte di Natale, si svegliano all’alba per andarli a raccogliere.

Abbigliati come un incrocio fra un boscaiolo e un guerrigliero delle foreste dell’America Latina, con ammirabile spirito di sacrificio, varie generazioni di carusi del nostro paese hanno reso possibile il protrarsi di questo meraviglioso rito.

Ogni anno, finita la messa, grazie a loro riparte puntuale il crepitìo delle fiamme che si mescola al vociare sommesso dei fedeli che hanno assistito alla funzione religiosa. Il calore del fuoco che ristora i paesani infreddoliti e ne illumina i volti mentre si fermano per qualche minuto ad ammirare la maestosità di quello spettacolo vecchio come il mondo. Poi, piano piano, tutti si rimettono in moto pronti ad affrontare la giornata: lavoro o scuola che sia. Appuntamento al giorno dopo. Pillole quotidiane dell’atmosfera del Natale che si avvicina.

Fino alla notte più bella. I carusi si fanno in quattro per preparare uno spettacolo persino superiore a  quello che hanno offerto nei giorni precedenti. Mentre il sacerdote dice messa e il bambinello sta per venire al mondo, loro riscaldano l’ambiente per i paesani meno religiosi rimasti lì fuori (e intervenuti per puro spirito di aggregazione) alimentando di tanto in tanto le fiamme con rami e foglie. Il falò è pronto a divampare ma i ragazzi lo tengono a bada. “Compare, sta calmu chi ancora nun è ura”, sembrano dirgli. Quello prova a replicare, borbotta, ma desiste.

Mezzanotte. I fedeli salutano la nascita del salvatore e cominciano a uscire ammassandosi ai margini della piazza mischiandosi con chi era già lì. Suonano le campane. È il segnale. I carusi si muovono all’unisono per dare libero sfogo alla voglia del falò di stupire, di ipnotizzare, quasi soggiogare i muntagnari. I quali prima provano istintivamente a resistergli, fanno gli indifferenti, si scambiano saluti e auguri. Ma poi, uno dopo l’altro, volgono lo sguardo verso quello spettacolo e ne cadono dolcemente preda. Si abbandonano completamente ad esso.

Anno dopo anno. Generazione dopo generazione. Sempre grazie a quei giovani boscaioli improvvisati che non chiedono nulla in cambio. Gli bastano quei cuori riscaldati e quei volti rischiarati dal loro falò.




martedì 17 gennaio 2023

Mia nonna Concetta

Certe volte la mente fa dei salti che sembrano illogici. Io, però, ormai mi sono convinto che ci sia un sottile filo che lega ricordi, musiche, odori e sensazioni che apparentemente non hanno nulla a che vedere fra loro. Diciamo che tutto ha un senso anche se spesso non lo capiamo.

Di recente stavo riascoltando una canzone degli Ocean Colour Scene, Better Day, uscita in piena esplosione del cosiddetto fenomeno britpop (che, considerato il grande livello delle band venute fuori in quegli anni, di suo è un nome abbastanza di merda per descriverle).

Insomma, mentre ascoltavo, senza alcun motivo spiegabile, mi è venuta in mente mia nonna Concetta, che di certo non sarebbe stata fan dei fratelli Gallagher. E quasi automaticamente ho riflettuto sul fatto che, sì, ogni tanto penso a lei con affetto, ma non quanto dovrei e meriterebbe. E questa è probabilmente la "colpa" che tutti noi, chi più, chi meno, abbiamo nei confronti di chi ci ha voluto bene e, ad un certo punto del nostro cammino, se n'è dovuto andare. Siamo così  travolti dalle nostre giornate che non riusciamo a fermarci a pensare e ricordare adeguatamente chi lo meriterebbe.

La canzone andava avanti, e adesso avevo anche il viso di mia nonna davanti agli occhi. Poi, dal nulla, la mente si è spostata su Jovanotti. Ma non su Lorenzo Cherubini, pseudo-cantautore italiano che oggi fa i concerti sulle spiagge, no. Io mi sono proprio ricordato di quel Jovanotti "scemo" che tanto mi piaceva da bambino, quando andavo alle elementari. Quello di Gimme five, E' qui la festa? e La mia moto. Quello che aveva il cappellino con la scritta Yo e la camicia con le stelle. Quello che, al solo pensiero della risata idiota, oggi prenderei una mazza ferrata mentre allora cercavo pure di imitarla. Quello che pubblicò anche un paio di singoli con lo pseudonimo di Gino Latino, interpretando il personaggio come se fosse stato un altro cantante e tutto il resto...

Mia nonna mi aiutava a vestirmi la mattina, dicendomi di sbrigarmi per non fare tardi a scuola, e io canticchiavo "Gimme five, all right!", mia nonna mi preparava la merenda e io mettevo la cassetta di Jovanotti. Mia nonna cominciava già nel pomeriggio a prepare per la cena e io, seduto in cucina di fianco a lei, facevo i compiti e cantavo ripetutamente "My name is Gino...Latino!".

Ad un certo punto, come se fosse stata scossa da qualcosa, si voltò di scatto e mi interrogò: - che hai detto?

- Niente..., risposi quasi impaurito (hai visto mai che magari mi mollava un ceffone per qualche monelleria che non riuscivo ad identificare...)

- No, quello che stavi cantando...che hai detto?

- My...name is...Gino Latino

Mi guardò con quella sua tipica espressione, a metà fra il divertito e lo sdegnato, di quando ne combinavo qualcuna: - forse intendi Gino LATILLA (per lei, musicalmente, poteva esistere solo quel Gino, ovviamente)

- No, no, è Gino Latino

- Ma quali Latino...si chiama Gino Latilla

- No, nonna, si chiama Gino Latino

- Latilla

- Latino

- Ora vinni chi si chiama Latino...u nomi è L-a-t-i-l-l-a 

- Nonna ma se ti dico che si chiama Latino!

La risoluzione della controversia fu suo appannaggio. E' riaffiorata dal mio subconscio proprio mentre vagavo fra le note di Better Day e i ricordi infantili di Jovanotti. E mi viene da ridere ancora adesso, pensandoci. Una sentenza fulminante che non lasciava possibilità di appello, un colpo da kappaò tecnico. E mia nonna Concetta - che spero stia sorridendo con me adesso - era campionessa indiscussa in questo.

Fece un attimo di silenzio e poi, con l'atteggiamento di chi ha di meglio da fare e non intende infierire, concluse: - vatinni, va', babbu

venerdì 9 dicembre 2022

Claudio du bar

 

Se fosse nato a New York invece che 'a Muntagna, Claudio sarebbe diventato un rapper che Eminem e Puff Daddy scansateve proprio.

A Montagnareale, invece, Claudio lavorava nel bar del padre, Donn'Antoni, ai tempi in cui in paese c'era l'imbarazzo della scelta per attività di pasticceria e gelati artigianali di qualità. Oggi la fama delle sue abilità culinarie, frutto di anni di apprendimento sul campo, lo precede. Tutti in zona sanno che se in un determinato ristorante, bar o agriturismo ci lavora Claudio significa che il posto è di livello.

Ma, da ragazzo, colui che oggi è un artista in cucina aveva l'animo inquieto di uno che l'arte avrebbe voluto praticarla in altre forme. Lavorare nel bar del papà per dargli una mano con l'attività di famiglia - una scelta praticamente obbligata dalla cultura ereditaria siciliana - era qualcosa che gli andava stretto. Claudio era troppo avanti rispetto ai compaesani della sua età. E pertanto, facendo buon viso a cattivo gioco, il bar di Donn'Antoni divenne il suo palcoscenico, un posto intorno al quale, a certi orari della giornata, si radunavano molti giovani del paese. Ed era sempre uno spettacolo!

E' vero, i videogiochi di cui il locale era dotato erano un grosso catalizzatore dei più piccoli ma quando era il turno di Donn'Antoni, bravissima persona, al massimo entravi, ti facevi una partitina e dopo il game over andavi subito via. Mentre quando sapevi che c'era Claudio era tutta un'altra storia: le ore volavano che neanche te ne accorgevi.

La clientela, di fatto, era perfettamente ripartita in base al barista e il bar veniva identificato in modo diverso in base all'età di chi lo menzionava: i muntagnari di una certa età vi si riferivano chiamandolo u bar di Donn'Antoni mentre per bambini e ragazzi era, ovviamente, u bar di Claudio. E sembrava veramente che il posto si trasformasse nell'uno o nell'altro durante la giornata. 

Nel bar di Donn'Antoni l'atmosfera era come ovattata (e no, non ci stiamo riferendo al tasso alcolico determinato dalle barbette bevute a ripetizione da alcuni avventori). Persino la luce sembrava più fioca, quasi priva di forza. In quel momento era il locale dove il paesano, fra una preoccupazione e l'altra, stanco dopo una giornata di lavoro, si beveva una cosa e faceva due chiacchiere (ma a volte preferiva stare addirittura in silenzio) prima di tornare a casa. D'altro canto, ad una certa età, dopo dieci ore di fatica, con tutti i problemi che ti ritrovi ad affrontare, hai poca voglia di ridere e scherzare. Perché, mentre sorseggi il tuo bicchierino di vino o di birra, il pensiero fisso è che domani bisogna tornare a spaccarsi la schiena per portare a casa la pagnotta.

Di contro, nelle ore in cui diventavano u bar di Claudio, come nelle favole, il vano principale e la saletta adiacente si convertivano in un luna park. Videogiochi che macinavano, in piena attività, ma anche battute, risate e musica. Tanta musica. E sull'argomento Claudio era avanti, lo abbiamo detto. Mentre noi al massimo arrivavamo a Cristina D'Avena o al Jovanotti di Gimme Five, lui nello stereo portatile grigio a doppia piastra collocato fra il bancone e la cassa - in uno spazio che era diventato di fatto la sua consolle - sparava i Run DMC, i Beastie Boys e Derek B con la cassetta della compilation Dee-Jay Rap. E mentre la musica andava lui ci cantava pure sopra come un consumato gangsta rapper.

E non importa che i suoi rap fossero parole a caso che somigliavano all'inglese ma di fatto non erano né inglese né nessun'altra lingua conosciuta (e comunque lo aveva fatto anche Celentano in Prisencolinensinainciusol e nessuno si era mai lamentato). Tutti noi osservavamo le sue performance in estasi: era qualcosa che 'a Muntagna non si era mai visto né sentito. E volevamo assolutamente sapere e vedere di più. Claudio per noi era una specie di predicatore di modernità. I Litfiba, per esempio, dovrebbero ringraziarlo per il successo avuto in Sicilia: se non ci fosse stato Claudio con la cassettina di El Diablo perennemente a palla nel bar, probabilmente oggi da noi sarebbero dei perfetti sconosciuti.

Lui a volte, quando rappava, si registrava pure (quello stereo portatile poteva fare anche da studio di registrazione) e provava a coinvolgerci. Ma eravamo così impediti rispetto al suo ritmo e alla sua capacità di improvvisare che al massimo ci veniva fuori un ridicolo yeah! che ripetevamo un paio di volte di seguito fino a che Claudio era costretto ad interrompere la registrazione e a liquidarci con un bonario lassammu perdiri, va

Ma non era uno che si faceva prendere dalla collera. Mai. Neanche quando Luca lo stuzzicava. O meglio, quando gli rompeva le palle come fanno tutti i bambini con i ragazzi più grandi. Quello lo punzecchiava, si avvicinava, gli toccava il braccio e correva a distanza di sicurezza, lo sfidava col suo cavallo di battaglia: "ichisiiii". Claudio, allora, si produceva nella sua famosa imitazione del milanese (quantomeno del milanese secondo noi siciliani) e, con quell'accento, gli rispondeva: "se continui, tra due secondi ti faccio due mosse da heavy metal...". Ora, nonostante l'heavy metal non fosse uno stile di lotta, noi conoscevamo alla perfezione il vocabolario di Claudio e sapevamo cosa sarebbe venuto dopo. Lo sapeva pure Luca che si divertiva un mondo e insisteva fino a che il barista non si trasformava nell'"heavy metal", se lo caricava sulle spalle (allora era possibile, ci chiediamo cosa succederebbe se ci provasse adesso...) e lo faceva girare fino a fargli venire le vertigini. Il bambino, che con le sue provocazioni cercava proprio quel divertimento, lo implorava ridendo di gusto: "aiutuuu, va bene, va bene, fammi scinniri, chiedo perdono!". Era la parola d'ordine con cui si fermava il gioco senza alcuna ulteriore conseguenza.

Poi arrivava Donn'Antoni, Claudio, da bravo figlio, tornava serio, la musica calava subito di volume e l'ambiente si preparava ad ospitare i grandi e gli anziani. Noi ce ne andavamo a casa sorridenti, pensando a quanto Claudio fosse avanti.



venerdì 2 dicembre 2022

I quiz radiofonici, Don Mario e i suoi eredi

In principio fu Radio Monte Ilici. Nella meravigliosa epoca delle radio libere, quando per trasmettere "bastava" piantare un'antenna e cominciare a parlare a un microfono, in un paesino come il nostro nacque una piccola realtà mediatica che irradiava musica e parole, rendendo anche un servizio alla comunità con informazione locale e intrattenimento.

Poi fu la volta di Radio Stereo Time, figlia dell'entusiastica iniziativa di Sebastiano - per tutti i muntagnari Bastianu - che insieme ad alcuni coetanei (con i quali condivideva la stessa positiva "follia"), ad un certo punto, ebbe l'idea di creare un'alternativa più giovanile alla Radio Monte Ilici di quegli anni. Il nome scelto, in inglese, in effetti mise subito in chiaro le intenzioni dei nostri prodi.

Così, per un po' di anni, ci trovammo in casa ben due stazioni radiofoniche, in amichevole concorrenza fra di loro, che rappresentavano un meraviglioso passatempo e un mezzo di espressione per quei ragazzi che giocavano a fare i dee-jay. Certo, i risultati a volte erano di un livello che definire "dilettantistico" sarebbe un eufemismo. Per esempio, da quell'esperienza sono state consegnate alla storia frasi come "e ci abbiamo ascoltato questo brano di...". Ma era bello lo stesso. O, forse, era bello proprio per questo.

Con il lancio di Radio Stereo Time, l'offerta di programmi di intrattenimento per i muntagnari e per gli abitanti delle altre zone coperte dal segnale raddoppiava. Spesso si trattava di repliche infinite della stessa formula, è vero. Ma la gente adorava telefonare in radio per richiedere le proprie canzoni preferite (selezionandole come si faceva mettendo una monetina nel juke-box, in pratica) e affidare all'improvvisato speaker di turno il compito di leggere la dedica per la fidanzata, la mamma o gli amici. Mica potevi chiamare RDS o Radio Dee-Jay per chiedergli di mettere l'ultimo pezzo di Scialpi o dei Duran Duran e dedicarlo "da panna per fragola con amore. Ci vediamo alle sei al solito posto". Se il povero paesano - che voleva solo esprimere i propri sentimenti nei confronti della sua ragazza usando lo stratagemma dei nomi in codice per evitare che il padre di lei lo scoprisse e gli spaccasse la schiena - lo avesse fatto, come minimo quelli all'altro capo del telefono avrebbero chiamato i carabinieri o la neuro. Nelle radio libere di paese, invece, no. Era tutto più intimo, quasi familiare. Ed è normale affidare a un familiare la consegna di un messaggio d'affetto.

Un'altra specialità della casa erano i giochi a premi, comunemente chiamati quiz radiofonici. Sulla scia del successo decennale di quelli televisivi, nel corso degli anni sia Monte Ilici che Stereo Time ne proposero svariati.

Nella radio di Bastianu, il Mike Bongiorno locale all'inizio fu Don Mariu du bar. Il noto pasticciere del paese, oltre ad essere un maestro dei dolci, aveva anche il coraggio e la capacità di disimpegnarsi con cuffie e microfono. Talvolta sgrammaticato, magari, ma comunque sempre padrone della situazione. Disinvolto nell'interagire con gli ascoltatori che chiamavano per provare a risolvere i rompicapo che il conduttore proponeva durante il programma e vincere così uno dei premi in palio. Fra una telefonata e l'altra, poi, Don Mario lanciava anche qualche pezzo di liscio molto apprezzato dagli ascoltatori di una certa età, fedeli seguaci della trasmissione. Ma la musica non inganni. Ad ascoltare Don Mario c'erano anche ragazzi e bambini. Potremmo dire che il suo era un programma per famiglie. 

Certo, a volte qualche giovinastro si divertiva a fare uno scherzo al conduttore ma l'ira funesta di quest'ultimo si abbatteva su di lui. Come quella sera in cui un fantomatico concorrente, per fare lo spiritoso, rispose che l'oggetto misterioso da indovinare era "u ***** chi ti norba". Bastarono due parole di Don Mariu pronunciate con un tono leggermente più alto perché quello staccasse immediatamente il telefono e andasse a nascondersi sperando di non essere stato riconosciuto. D'altro canto, quando il barista del paese si arrabbiava, bastava un suo urlo da dentro il bar perché la gente sotto l'albero si ammutolisse e gli uccelli sui rami smettessero di cinguettare. 

Un altro momento magico del quiz di Don Mario fu la chiamata di quell'ascoltatore che tentò di indovinare l'animale misterioso. Il presentatore volle dargli un aiutino e gli rivelò la prima lettera: "fai bene attenzione: l'animale comincia con la P". Il concorrente a casa ci pensò su qualche secondo e poi - forse un po' dubbioso, sì, ma che diamine, bisogna buttarsi per tentare la fortuna! - concluse: "Ma chi è per casu, u Popotimu??".

Anni dopo, nel 1994, quando il barista si era ritirato ormai da un pezzo dalla carriera radiofonica, toccò a una squadra di ragazzi provare a far rivivere i fasti del gioco a premi. Impresa ardua che ebbe un discreto successo pur non arrivando a eguagliare i risultati di pubblico dell'originale. D'altro canto, il tentativo di emulazione venne affidato a ben sei elementi, che conducevano tutti insieme creando, a tratti, anche una discreta confusione. E già questo ci fornisce un dato oggettivo: per fare un Don Mario ci volevano almeno sei picciotti moderni.

Inoltre, il revival del gioco a premi venne proposto solo nel periodo di Natale come appuntamento speciale. Inutile dire che anche questa trasmissione si rivelò una miniera di perle indelebili. Il momento più alto venne probabilmente raggiunto con la bocciatura da parte di uno degli speaker di una risposta assolutamente corretta fornita da un concorrente. Il gioco verteva su domande di cultura generale in stile Trivial Pursuit. Vabbè, non prendiamoci in giro: per fare le domande i conduttori usavano proprio le carte del Trivial Pursuit. Com'è noto, i quesiti si basavano su varie categorie: scienze, storia, sport, ecc. Bene, se pensate che il presentatore che fa domande di cultura generale debba essere almeno minimamente ferrato in cultura generale, sappiate che date le cose troppo per scontato.
Ad un certo punto, infatti, arrivò la chiamata di Massimiliano da Montagnareale (ricordatevi che il segnale arrivava anche fuori dal paese) Uno dei magnifici sei, lasciato un po' in disparte durante le ultime telefonate, si era prenotato poco prima per interagire col seguente ascoltatore. E quindi: "Ciao Massimiliano, che categoria scegli per giocare?". Quello scelse storia. "Bene, mi sai dire chi era il Presidente della Repubblica nel 1982? Pensaci bene...". E quello, senza perdere un secondo di più, rispose sicuro che era Sandro Pertini. Tutto bene, direte voi. Adesso gli dice che ha indovinato e che ha vinto un premio. Ma voi date le cose troppo per scontato, come detto.
Si dà il caso che il conduttore in questione avesse il vizio di tenere in mano non solo la carta della disciplina scelta ma anche tutte le altre. Se poi ci mettiamo anche che aveva qualche lacuna in storia (fra le altre materie), potrete facilmente immaginare cosa avvenne dopo.
Nella concitazione del momento, la carta con le domande di sport si era fatalmente sovrapposta a quella di storia: "Nooooo, purtroppo hai sbagliato! Peccato! La risposta esatta era Sandro Mazzola!". Nello studio e a casa di Massimiliano scese il gelo. Per qualche interminabile secondo nessuno parlò. Subito dopo, come se si fossero ridestati all'unisono dall'ibernazione, gli altri cinque cominciarono a gesticolare sperando che il collega capisse l'errore e si correggesse. Ma il novello Gerry Scotti (o Piero Angela, se volete) si limitava a guardarli con un gigantesco punto interrogativo stampato in faccia. Alla fine, uno degli altri conduttori si riprese dallo shock e provò a millantare, emettendo una risatina nervosa, una poco credibile burla ai danni dell'ascoltatore, proclamandolo vincitore prima di lanciare in fretta e furia la pubblicità. 

Scherzi della diretta, direbbe qualcuno. Per fortuna ci pensò la mamma di Bastianu, la signora Anna, a premiare le fatiche dei nostri. La sera dopo l'ultima puntata, andata in onda un paio di giorni prima di Natale, sfoderando la proverbiale ospitalità delle mamme della sua generazione, invitò tutto lo staff a casa a mangiare pasticcini e brindare per celebrare un'esperienza dai risvolti spesso comici, sì, ma in cui ognuno metteva il cuore.



giovedì 24 dicembre 2020

Natale 'a Muntagna

Per me Natale è sempre stato la famiglia, u focu davanti a Chiesa, le vacanze spensierate, gli amici. Da piccolo, a dire il vero, anche le bombette, che chi ne comprava un pacco intero per capodanno ma, nel frattempo, le sparava in giro si sentiva u megghiu.

Ogni volta che penso a questo periodo, non so perché ma, prima di qualunque altro, mi viene subito in mente un episodio, in sé apparentemente privo di un significato particolare. Uno dei tanti momenti che, se vogliamo, sembra anche piuttosto banale rispetto ad altre occasioni di convivialità e spensieratezza tipiche delle festività natalizie.

In paese c'è fermento perché i carusi chiu ranni stanno raccogliendo la legna da usare per il falò della notte di Natale (o comunque per uno dei giorni di novena, non ricordo). Fanno su e giù con la macchina di quelli che, fra di loro, hanno già la patente. Caricano e scaricano. Si sente un gran vociare anche da casa mia.

Dopo aver passato qualche ora a casa ad ascoltare vinili con lo stereo di mio papà (ne avevo un paio miei e non facevo altro che editare e ri-editare compilation fai-da-te cercando di mixare le canzoni usando il play e pausa della piastra) e dopo aver registrato un qualche programma radiofonico in cui un tizio riassumeva i migliori pezzi dell'anno, esco anch'io.

L'atmosfera sembra quella del sabato del villaggio di Leopardi a-la-muntagnara.

Arrivo a Santa Caterina ma non trovo nessuno. Evidentemente anche i miei coetanei sono in piazzetta a fare da chiassoso contorno al lavoro di' chiu ranni (e magari a sparare qualche bombetta vantandosi della propria capacità di correre rischi temerari...). Passa Domenico con la 112, vestito da boscaiolo per l'occasione. Lo fermo e gli chiedo un passaggio offrendogli in prestito la mia ultima cassetta contenente il programma con le canzoni dell'anno presentato dal tizio di cui sopra. Acconsente, mi fa salire e mette subito il nastro nell'autoradio. (Quando qualcuno ascoltava le cassette che editavo, mi sembrava come se stesse ascoltando musica fatta da me e, in un certo senso, ne ero fiero...). Mi dice: "sì, ma chistu parra troppu supra a musica". Come dargli torto, quello riusciva a parlare anche per un minuto e mezzo di fila sulla stessa canzone!

Arriviamo davanti alla Chiesa, scendo. La casa di pietra che si affaccia sulla piazzetta, l'arco, la stradina stretta, i rami e le foglie accumulate a mucchietti per terra, un fuocherello già acceso, i carusi ranni vestiti da taglialegna, la luce soffusa, le risate e i botti: quello è il presepe che mi è sempre rimasto in testa. Quello è il mio Natale.

Più volte mi sono chiesto perché, al pensiero del Natale da piccolo 'a Muntagna, mi scatta automaticamente questo "banale" ricordo prima di tutti gli altri che conservo con affetto.

Una risposta, alla fine, l'ho trovata: la semplicità. Quella che da bambini ci sembra persino noiosa.  Che da ragazzini, a volte, addirittura avversiamo perché - anche giustamente - vogliamo di più. E che da adulti, nei momenti di difficoltà come quello che stiamo attraversando, ti fa dire: eravamo così felici e non lo sapevamo.

Buon Natale a tutti.

martedì 17 dicembre 2019

Patri Vasta

Padre Nunzio Vasta, anzi, Patri Vasta, come tutti lo chiamavamo, è stato per tanti anni il parroco del paese. Negli anni a cui risalgono i miei primi ricordi, lui era già u parrinu. E lo è stato per tutta la mia infanzia, catechismo compreso. Per quanto mi riguarda, quindi, si tratta di una di quelle persone che è entrata di diritto nel pantheon dei simboli da' Muntagna.

Di Patri Vasta ho ancora nelle orecchie il richiamo che ci indicava che il tempo per il gioco era finito e dovevamo recarci nella sala parrocchiale per il catechismo. Quel suo eentriaaamooo pronunciato dalla soglia della porta quasi come una litania. E custodisco con affetto parecchi aneddoti, alcuni anche particolarmente divertenti. 

Come quella volta in cui mi diede un ceffone per aver fatto una battuta sul battesimo. 
Un sabato, durante la dottrina, il parroco ci stava spiegando l'importanza di questo sacramento. E lo faceva con trasporto. Un paio d'anni prima era nato mio fratello minore. Così, con il tipico atteggiamento del moccioso che vuole fare il simpatico del gruppo, ad un certo punto chiosai che era tutto chiaro perché "pure a mio fratello ci ficinu u sciampu". Non l'avessi mai detto! Mi fulminò con un "come ti permetti?" proferito a una quantità di decibel fuori norma e mi mollò un cinculiri che mi convinse immediatamente a riconsiderare la posizione da giullare improvvisato che avevo assunto poco prima.
Certo, erano altri tempi. Molto probabilmente un prete di oggi richiamerebbe un bambino solo verbalmente. Ma Patri Vasta - badate bene - non era affatto un tipo manesco (sinceramente non ricordo nessun altro episodio del genere), tutt'altro: era una persona solitamente mite. Solo che quella volta toccai un concetto troppo elevato e troppo importante per un credente. In Chiesa, cioè nella casa dei credenti. Non dico che fece bene ma riconosco che sicuramente ebbe le sue motivazioni. In gergo tecnico, si direbbe che ci scippau di mani.
E la parte divertente è il ricordo che ne ho oggi. Soprattutto quello della rapida sequenza in cui si consumò il tutto: io che penso di essere u scattru del gruppo e dico la mia a bruciapelo; lui che, assorto nella spiegazione teologica, viene improvvisamente riportato su un piano decisamente terreno, tanto da spalancare gli occhi come se gli avessi dato un pugno nello stomaco; l'accesa risposta che ne segue e la consegna quasi contemporanea della "banconota". Sempre in gergo tecnico: 'o scancila a banca.

Quando ci ripenso, non riesco a non ridere. E provo solo affetto e simpatia nei suoi confronti.

Oppure c'è stata quell'altra volta in cui chiese a noi bambini del catechismo di vendere ognuno un blocchetto di biglietti della Festa Madonna delle Grazie del 15 agosto. Per ogni blocchetto venduto - cento biglietti dal costo di mille lire ciascuno - ci avrebbe riconosciuto un premio di diecimila lire. Wow! A livello commerciale, un venditore professionale direbbe che si tratta di un obiettivo molto motivante. Qualcuno, però, vide l'impresa come una montagna difficile da scalare, che magari fai uno sforzo immane per arrivare in cima e poi, quando sei a pochi passi dal traguardo, inciampi e ruzzoli di nuovo giù. Quindi venne posta la domanda: "Patri Vasta, ma se per caso li vendiamo quasi tutti e, per pochissimi biglietti - quattro o cinque, diciamo -, non arriviamo a completare il blocchetto, il premio ce lo da lo stesso?". Lui, con quel suo fare rassicurante, sguardo sorridente e voce calma (che era, in genere, il suo atteggiamento naturale) rispose: "Se non riuscite a finire il blocchetto e vi rimangono pochissimi tagliandi, state tranquilli: il premio lo riceverete lo stesso". Una risposta accolta con grande favore da parte dei pargoli. Evviva Patri Vasta! Mettiamoci subito al lavoro!
Quell'estate feci letteralmente i numeri per guadagnarmi quelle diecimila lire. Girai parenti, amici, conoscenti - due volte, se necessario - e chiesi pure a mio padre di procacciarmi dei clienti fra i suoi colleghi. Ma non era abbastanza. Allora feci gli straordinari anche il giorno della festa, dato che la consegna ufficiale del blocco era la sera, alla fine della processione. Lo sforzo produsse un risultato invidiabile di novantasette biglietti venduti su cento. Memore delle rassicurazioni del curato, mi recai soddisfatto all'appuntamento fissato per tirare le somme e riscuotere il premio. Esordii dicendo che avevo fatto del mio meglio ma mi erano rimasti solo tre tagliandi..."ma lei ci diceva che andava bene lo stesso no, Patri Vasta?". Lui mi sorrise bonario, mi guardò e mi disse di non preoccuparmi. E con il fare rassicurante di cui sopra cominciò a contare le banconote che mi stava per consegnare: "mille, duemila...cinquemila, seimila, settemila...". Poi il conto si fermò un attimo. Giusto il tempo di staccare i tre biglietti che erano rimasti nel blocchetto che gli avevo appena restituito. Li aggiunse alle banconote e concluse: "e con questi tre fanno diecimila lire precise, bravissimo, ottimo lavoro...".

Quando si dice che le parrocchie di provincia non hanno tante risorse e devono arrangiarsi come possono. Fu in quel momento che maturai la convinzione che al clero non la si fa! Se prendessimo in prestito il lessico calcistico, potremmo raccontare che Patri Vasta era riuscito a mettere a segno nel recupero la rete della vittoria, con una giocata che Maradona scansati: un grande! Che ridere!

Un'altra volta fu tenerissimo. E questo è uno degli episodi che mi rimangono nel cuore. Nel periodo di carnevale organizzò una mattinata di giochi nella piazzetta davanti alla Chiesa. Una specie di gara a prove (di abilità, equilibrio, velocità, ecc.) che conferivano ai partecipanti una serie di punti. Chi, alla fine, avrebbe totalizzato il punteggio più alto sarebbe stato premiato durante la festa in maschera che il parroco aveva organizzato per noi bambini, nel pomeriggio, in sala parrocchiale. Solo che il meccanismo di calcolo dei punti non ci era stato svelato. E secondo me realmente non esisteva neppure: ce lo aveva detto solo per motivarci a dare il massimo. Quella mattina, i partecipanti eravamo pochini, a dire il vero. I due più grandicelli eravamo io e Nino che facevamo categoria a parte. E non me l'ero cavata male ma, in cuor mio, credevo che Nino fosse andato leggermente meglio in alcune prove. Nonostante ci affannassimo sperando di conoscere in anticipo il verdetto della giuria (composta, per l'occasione, da Patri, Nunzio Vasta: uno e trino), u parrinu non proferì parola e si limitò a darci appuntamento al pomeriggio. Alla festa, quindi, dopo i convenevoli di rito (fra patatine, coca-cola e musica) e la consegna di un piccolo dono a tutti gli altri partecipanti, io e Nino ci avvicinammo al prete e, impazienti, lo sollecitammo: "Patri Vasta...ma insomma...chi ha vinto?". Ci guardò con un'espressione di sincera felicità - che ho davanti agli occhi anche qui e ora - con lo sguardo ridanciano che mandava a monte il maldestro tentativo di creare suspense e, piuttosto, rendeva evidente che non vedeva l'ora di darci quell'informazione tanto quanto noi non vedevamo l'ora di riceverla. Rullo di tamburi: "Ha vinto...ha vinto...tu!" indicando Nino, e immediatamente, senza neanche darmi il tempo di rimanere deluso, "...e tu!" indicando anche me. Fu una soddisfazione di quelle che a un bambino fanno bene. Perché gli danno una spinta positiva nel processo di acquisizione di un posto nel mondo che è in corso a quell'età. Dalla gioia, io e Nino ci mettemmo a correre e saltare per la stanza e lo ringraziammo mille volte quando ci consegnò i giocattoli che aveva comprato come premio.

Ora, il giocattolo non lo ricordo per niente, la felicità che mi regalò invece sì, fino all'ultima goccia.



venerdì 25 ottobre 2019

La Sagra della Castagna

La Sagra della Castagna è il fiore all'occhiello di Montagnareale, piccola comunità in provincia di Messina. Ogni anno, da generazioni, la gente del paesino si rimbocca le maniche per vestire a festa il piccolo centro ed offrire qualcosa di diverso - di suggestivo, se vogliamo - per l'ultima domenica di ottobre.
Con l'organizzazione e la realizzazione della sagra, i paesani hanno sempre voluto dimostrare al resto della provincia, e della Sicilia in generale, che ci siamo anche noi. Che anche noi siamo in grado di creare un evento. Che anche noi vogliamo riservare a chi viene a trovarci quell'ospitalità tipicamente siciliana che ci contraddistingue.
I "non più giovani" ricorderanno che, da bambini, nelle settimane precedenti alla sagra c'era fermento e si respirava già l'aria della festa che si sarebbe tenuta l'ultima domenica di ottobre. Di fatto, ragazzi e adulti del paese si trasformavano in artisti (sì, nessuna esagerazione: veri e propri artisti) e dalle loro idee prendevano forma le decorazioni che avrebbero stupito il pubblico a fine mese. Bandiere, archi, colori, composizioni con rami e foglie di castagno ad abbellire le vie del centro. Una volta persino una copia del David di Donatello eretta davanti al bar! D'altro canto, ogni paesino che si rispetti deve essere anche un po' (meravigliosamente) pacchiano, no?
E poi arrivava quella domenica. Alcuni volontari sudavano davanti al fuoco per tutto il pomeriggio e fino a tarda sera per offrire, sempre con il sorriso sulle labbra, caldarroste gratuite alla lunghissima fila di persone in attesa. Altri facevano su e giù per il paese per verificare che tutto fosse a posto con le luci, la musica, le bancarelle, lo smaltimento del traffico. Altri ancora si occupavano della gestione del concorso delle torte e della distribuzione degli assaggi ai visitatori. Niente soldi. Solo passione e orgoglio paesano.
Quello stesso orgoglio con cui, oggi, quelli che hanno dovuto lasciare il paese per cercare fortuna altrove raccontano la Sagra a chi non la conosce.


SOTTO L'ALBERO - Ti ricordi?

Scopriamo subito le carte: ci piace il vintage, portiamo nel cuore la semplicità della nostra infanzia e intendiamo celebrarne il ricordo.
D'accordo: a qualcuno tutto questo potrebbe sembrare eccessivamente malinconico. Potremmo essere accusati di guardare troppo al passato invece di vivere il presente. Ma ci sentiamo di rassicurare i dubbiosi: al di là della fisiologica nostalgia di quando avevamo qualche anno in meno e nonostante le preoccupazioni che la quotidianità riserva quando si è adulti (insieme a qualche capello bianco in più), i nostri piedi rimangono ben piantati nel "qui e ora"
Non ripieghiamo verso gli anni che furono per sfuggire a un presente che delude, come facevano intellettuali ed artisti neoclassici. (Anche perché la nostra massima realizzazione artistica è stata la poesia declamata alla recita di Natale). Siamo felici di quello che abbiamo ottenuto fin qui, non abbiamo particolari rimpianti e, oltretutto, abbiamo ancora voglia di costruirci un bel pezzo di vita. Ma ci godiamo anche il ricordo di "una volta".
Oltre a un esercizio di piacere, però, che cos'è per noi il ricordo? È un modo per non dimenticare che sotto quell'albero siamo sempre stati e siamo ancora tutti "paesani", membri di una comunità come ce ne sono tante al mondo ma, allo stesso tempo, unica e speciale, con i suoi pregi e i suoi difetti. Una comunità ridimensionata nelle presenze, nel corso dei decenni, dalle circostanze dell'esistenza ma idealmente sempre popolata dall'affetto di decine di cuori vicini e lontani.
Che ogni tanto si ritrovano ancora proprio sotto l'albero per ricordare e raccontare. Sorridere e magari anche commuoversi. Per essere ancora "paesani".


venerdì 16 febbraio 2018

Io, Nunzio, le compilation e la radio di Sebastiano

Non c'erano ancora gli mp3, non c'erano le web-radio, a stento si usavano i compact disk. La musica la registravamo in cassetta, magari da 33 giri dal suono scricchiolante oppure l'ascoltavamo alla radio, preferibilmente su stazioni locali che nella provincia siciliana si sentivano meglio di alcune emittenti nazionali.
Meraviglioso il periodo delle radio libere! Spesso mancava la competenza ma era uno stupendo insieme di creatività e comicità. Tutti (o quasi) potevano improvvisarsi dj in una piccola radio locale: essere in grado di mettere una dietro l'altra due parole di senso compiuto, possedere proprietà di linguaggio e avere qualcosa da dire non sempre erano caratteristiche necessarie per mettersi davanti ad un microfono. Il risultato era spesso improbabile, eppure i programmi di dediche, gettonatissimi, erano molto seguiti. Perché si poteva dire quello che oggi viene affidato ai social network.
Poi - per carità - non sempre il risultato era farsesco. C'era anche chi, nel suo piccolo, aveva "voce" e sapeva disimpegnarsi abbastanza bene quando c'era da presentare dischi e cantanti in diretta.

Uno di questi era Sebastiano - in paese conosciuto come Bastianu - che, dopo aver fatto lo speaker a Radio Monte Ilici, aveva deciso di mettersi in proprio aprendo Radio Stereo Time.
Cioè, per capirci meglio: negli anni Novanta, in un paesino di appena un migliaio di anime, c'erano ben due emittenti locali. Stupefacente.
Io e Sebastiano eravamo vicini di casa e, soprattutto, siamo sempre stati come di famiglia. La sede della radio era proprio sotto casa sua. Dentro, lo spazio era piccolino: ci entravano a stento due piatti per i dischi, il microfono e una sedia girevole e poi qualche scaffale per i vinili. Ma non avevo mai visto niente del genere e a me sembrava un'astronave. Sin dall'apertura dell'emittente, quando ero ancora un bambino, Sebastiano mi aveva sempre permesso di stare lì a guardare lui e gli altri ragazzi che trasmettevano, a patto che me ne stessi buono e non disturbassi. E lì dentro ci passavo le ore. Guardavo e riguardavo le copertine dei dischi, uno per uno. Osservavo i ragazzi che preparavano sul piatto la prossima canzone (a volte azzardavo anche delle richieste, soprattutto canzoni degli Europe), poi si mettevano la cuffia, alzavano il cursore e cominciavano a parlare. Ero letteralmente rapito dalla magia della radio.
Qualche anno dopo, ormai adolescente, forse perché nel frattempo ero diventato parte dell'arredamento, Bastianu mi diede la mia chance. Dopo tanto osservare, avendo imparato a memoria il funzionamento del mixer, avrei potuto perfettamente occuparmi di fare una "selezione musicale". In sostanza, chi non sapeva o non voleva o non poteva - quest'ultimo era il mio caso - parlare al microfono, passava solo i dischi e ogni tanto diceva "state ascoltando Radio Stereo Time sui 95.4 e i 97.7 in FM". Ero in estasi. La mia prima "selezione musicale" durò oltre tre ore: un brano dopo l'altro misi sul piatto tutto ciò che mi piaceva di più. E chi si scollava da quella postazione tanto agognata!
In seguito arrivò anche la "promozione": i miei "state ascoltando..." dovevano aver fatto presa sul pubblico perché chiesi e ottenni di poter condurre un programma musicale tutto mio, con tanto di presentazione delle canzoni e tutto il resto. All'inizio, a dire il vero, si trattò di una co-conduzione con il più esperto Nino, uno dei disk-jockey più quotati dell'intero paese (no, non Paese nel senso di Italia, paese proprio nel senso del nostro paesino). Da lì, il passo a programmi di approfondimento sportivo - approfondimento: si fa per dire - fu breve. Il sabato o la domenica pomeriggio con Giovanni e le sue statistiche scritte a penna su un quaderno di scuola, durante la settimana con Francesco in studio e Luca inviato a seguire le partite di coppa in collegamento (da casa sua). Ah, la creatività e gli amici nelle radio libere non mancavano mai!

Oltre al posto dove fare il programma - come si diceva allora quando si trasmetteva in diretta -, Radio Stereo Time era anche una grande fonte di dischi e Sebastiano, bontà sua, mi permetteva pure di  registrare le mie cassettine con le novità che arrivavano periodicamente. Le compilation erano il mio forte. La musica rock la mia fissazione adolescenziale (che non si è mai sopita, in realtà).
Un giorno, al mare, parlando di dischi e gruppi con Nunzio, ci venne un'illuminazione! Avremmo creato una serie di raccolte, rigorosamente registrate in cassetta, selezionando pezzi rock da altri nastri (molti) e cd (pochi) in nostro possesso e dai vinili che Sebastiano mi lasciava registrare in radio. L'idea c'era. Ora serviva un nome, un brand con cui marchiare le nostre collezioni.
Ci pensammo su per un po' e poi Nunzio, riferendosi al contenuto, fece: "ci mittemmu musica a mazziari" (tradotto, per il resto d'Italia: in codeste musicassette inseriremo musica molto potente). Bingo! Gli risposi: "giustu, musica pi sbattiri a testa 'nto muru!" (giusto, musica talmente bella che, ogni volta che l'ascolteremo, ci provocherà accese emozioni!, ndr). E infine, mettendoci quell'inglesismo che fa sempre figo, conclusi: "chiamiamola Hit The Head Wall Wall compilation", che è più o meno la "traduzione" letterale del siciliano sbatti a testa mura mura (colpisci ripetutamente la parete con il capo, ndr).
Ora, dovete sapere che Nunzio è probabilmente uno dei più puntigliosi ed instancabili collezionisti dell'universo. Collezioni di musica, film, riviste, album: l'importante è che si raggiunga sempre la perfezione. Per esempio, se dopo aver registrato un film in vhs, riguardandolo, si accorgeva di una impercettibile (all'occhio umano ma non al suo!) riga in una frazione di secondo del video, l'operazione era automaticamente da ripetere, anche più volte, se necessario.
Pertanto, sin dall'inizio ero consapevole che selezionare i brani da includere nel nostro progetto sarebbe stato un duro lavoro, ma accettai la sfida.
Passammo l'intera estate del 1994 ad analizzare, valutare, soppesare, ascoltare, calcolare. Se pensavate che fare una cassetta fosse più semplice, è chiaro che non avete mai conosciuto Nunzio. In spiaggia, al pomeriggio, facevamo il punto sui nostri progressi: quel pezzo va bene, quello no, quel gruppo sì, quell'altro forse. La sera, invece, spesso andavamo in radio e, mentre io mi dilettavo in qualche selezione musicale, Nunzio setacciava gli scaffali dei vinili come un cane da tartufo in cerca di canzoni che facessero al caso nostro.
A fine agosto, eravamo finalmente pronti: Hit The Head Wall Wall compilation part 1 avrebbe visto la luce. Sì perché, cercando cercando, avevamo raccolto materiale per riempire almeno tre o quattro cassette. Il 6 settembre del 1994, come indicato sulla copertina dello stesso nastro, fu il giorno in cui Nunzio si chiuse in sala di registrazione (cioè la sua camera da letto, dove aveva lo stereo) e procedette all'incisione. La leggenda narra che, per fare un lavoro perfetto (e come, se no?) dei suoi, si fosse chiuso a chiave e non fosse uscito per tutto il giorno, neanche per mangiare. Alla sera, con le due prime (e uniche) copie editate, la mia e la sua cassetta, ci incontrammo in piazza per condividere il tesoro.

Valutando oggi quel lavoro, che ai tempi ci sembrava obiettivamente colossale, possiamo concludere che tre mesi di ricerche, valutazioni e selezioni produssero un (meraviglioso) minestrone di brani rock basato su un avanzato metodo bibliografico, riassumibile con la seguente formula: chista mi piaci, l'haiu, c'ha mettu (gradisco la canzone, quindi dato che ho a disposizione il disco sorgente, la converto sul nastro, ndr). E quindi, per esempio, i Rolling Stones o gli AC-DC, mostri sacri del rock, magari finivano per ritrovarsi nella stessa compilation con i meno quotati Ted Nugent o Blue Öyster Cult. Oppure, nonostante avesse cantato fior fiore di capolavori con i Led Zeppelin, di Robert Plant eravamo riusciti a reperire solo un singolo da solista, carino ma certamente non indimenticabile. O ancora, se i brani selezionati per la compilation non riempivano l'intero spazio a disposizione sul nastro, si passava al metodo ci ni mettu nautra (rimpinguo il contenuto con un'ulteriore opera di uno degli artisti presenti), in genere aggiungendo un altro pezzo tratto dallo stesso album da cui, per un determinato cantante o gruppo, erano stati selezionati gli altri due o tre già inseriti nella compilation.


Fatta la cassetta, era arrivato il momento di sperimentarne il suono. Ma dove? Come? E con chi?
Ci guardammo intorno. C'erano solo degli anziani seduti davanti al bar e un paio di bambini che giocavano in piazza. Di certo, nessuno di loro era utile alla nostra causa. Ad un certo punto, però, notammo Nino (il  mio ormai ex-co-conduttore), che aveva parcheggiato la sua Fiat Uno. Nonostante qualche resistenza, riuscimmo a convincerlo a farci provare la compilation nella sua autoradio. Nino ha sempre avuto un cuore d'oro. A noi si unì anche Salvatore, che era arrivato mentre eravamo intenti nell'opera di persuasione di Nino.
Quella del 6 settembre 1994 la ricordo ancora come una serata memorabile. La musica a palla sulla Fiat Uno, che più tamarri di così impossibile. Nino che - bastian contrario - si lamentava costantemente della musica, nonostante intimamente in realtà gli piacesse. Salvatore che apprezzava ma che, soffrendo il volume un po' troppo elevato, con voce stridula, ogni tanto urlava maronnaaaa. Nunzio e io che ci ci esaltavamo a ogni nota, davvero soddisfatti del nostro lavoro.
Alla prima Hit The Head sarebbero seguite, dopo ulteriori fatiche, altre due raccolte con lo stesso titolo (la terza la sottotitolammo addirittura "Progressive Alteration", giusto per farla sembrare ancora più potente).

Era quello un tempo in cui tutti potevano fare la radio e, con due vinili e una cassetta (e la Fiat Uno di Nino), era possibile creare colonne sonore indelebili.

lunedì 27 novembre 2017

Quando vincemmo la Coppa Intercontinentale in cameretta

Il gol di Del Piero al River Plate


Sono passati ben ventun anni dall'ultima Coppa dei Campioni e, di conseguenza, dall'ultima Coppa Intercontinentale vinta dalla Juventus. Una vera e propria ossessione per noi tifosi bianconeri! Un'intera generazione di juventini non ha mai visto la propria squadra sollevare quella coppa dalle grandi orecchie né tantomeno quella "dei due mondi" a cui accedevano - prima - solo le vincitrici della Champions League (Europa) e della Coppa Libertadores (Sudamerica).

Io mi ritengo fortunato. C'ero quando la Juve batté l'Ajax ai rigori e ricordo benissimo anche la mattina del 26 novembre 1996. Soprattutto, mi ritengo fortunato ad essere cresciuto negli anni in cui in bianconero si accendeva la stella di Alex Del Piero

Erano bei tempi. Al cinema Leonardo Di Caprio era un ragazzino imberbe che recitava in pellicole come Romeo+Giulietta e non era ancora salito sul Titanic.  I Metallica avevano appena "sconvolto" i fan più puri e duri tagliandosi i capelli e pubblicando Load, album dal sound decisamente poco "metal anni Ottanta". Ma a me piaceva - che potevo farci? - e in quel periodo, tutte le mattine, mentre mi vestivo, mettevo Until It Sleeps nello stereo. Come quel 26 di novembre, appunto.
La giornata era iniziata con il sole che si era dato malato. Sembrava che potesse venire a piovere e, certo, non era il massimo come presagio per la grande finale che si sarebbe giocata da lì a qualche ora.  Mio padre si stava facendo la barba, mentre fumava la sua consueta sigaretta mattutina (erano bei tempi, come detto, e c'era ancora anche lui che era in grado di fumare in qualunque situazione si trovasse, un vero e proprio "stacanovista della sigaretta"). 
Un breve saluto: "ti ricordi che oggi non vado a scuola perché la Juve gioca la finale dell'Intercontinentale in Giappone, vero?". Ovviamente, era stato lui ad accordarmi il permesso di saltare le lezioni per un giorno. "Sì, ma tanto perdete". In realtà era (stato) juventino anche lui ma si interessava poco di calcio e, soprattutto, adorava fare il bastian contrario
Dopo aver fatto gli scongiuri del caso, aver consumato una rapida colazione ed aver "impacchettato" il decoder di Tele+, ero pronto ad incontrare gli amici per il lungo pre-partita. Avremmo visto la gara a casa di Salvatore, che viveva nella parte alta del paese. Sì, perché nella provincia siciliana - prima dell'avvento del satellite - il segnale analogico della pay TV era molto scarso e qualcuno - come mio padre per me e mio fratello - pagava un abbonamento per vedere, male, solo un canale sui tre disponibili. Ma quella partita era troppo importante per rischiare gli eventuali capricci di un'antenna. Meglio spostarsi in una zona di quel piccolo centro collinare dove c'erano meno interferenze.

La Juve schierava uno squadrone: il capitano Peruzzi, Torricelli, Ferrara, Montero, Porrini, Di Livio, Deschamps, Zidane, Jugović, Del Piero, Bokšić. Ma anche il River Plate faceva paura: Bonano, Hernán Díaz, Celso Ayala, Berizzo, Sorín, Monserrat, il capitano Astrada, Berti, Enzo Francescoli (proprio l'idolo di Zinedine Zidane!), Ariel Ortega e Cruz. Che partita, ragazzi!

La voce del commentatore Marianella si sentiva molto distante, per via del collegamento telefonico che i chilometri di distanza fra Tokio e la Sicilia te li faceva notare tutti. La Juve si mostrava superiore al River per tutto il primo tempo. Conclusioni pericolose di uno scatenato quanto impreciso Bokšić (forse condizionato dagli anatemi lanciati da parte di un Salvatore particolarmente critico nei suoi confronti ​) ​e di Zidane, tutte respinte dalla difesa avversaria e da un Bonano in stato di grazia, che si ripeteva anche nel secondo tempo, uscendo in maniera provvidenziale ancora sull'attaccante croato, imbeccato da un'invenzione di Del Piero. Una sostanziale superiorità bianconera, interrotta solo dalla traversa velenosa di Ortega, a Peruzzi battuto, seguita dall'urlo di  terrore di noi tifosi stipati in camera di Salvatore.

Poi arrivò il momento che non avremmo più dimenticato per il resto della nostra vita: 36' del secondo tempo. Angolo per la Juve. Batte Di Livio. Zidane spizza di testa in area. Del Piero raccoglie la palla, si gira in maniera fulminea e scarica un gran destro all'incrocio. "Proprio lui: il principino!" - urlava Marianella mentre io, Nunzio e Salvatore impazzivamo di gioia a scapito dei mobili della camera di quest'ultimo!
Il River si buttava rabbiosamente in avanti in cerca del pareggio prestando il fianco al contropiede bianconero. Bokšić sbagliava l'impossibile (dando definitivamente ragione a Salvatore) e anche Di Livio falliva una grande occasione. Ma il risultato non sarebbe più cambiato. Al triplice fischio finale, erano solo abbracci di felicità. A Tokio come in Sicilia.

Del Piero venne nominato anche "man of the match" e ancora oggi non mi spiego come sia possibile che quell'anno non abbia vinto il Pallone d'Oro (si classificò addirittura quarto), assegnato invece a Sammer, un difensore. Considerato che, oltretutto, il prestigioso riconoscimento viene da sempre criticamente definito un "premio per attaccanti" e che, dall'anno della sua istituzione, lo aveva vinto solo un altro difensore - Franz Beckenbauer, per due volte - o che gente come Baresi, che lo avrebbe meritato in più occasioni durante la propria carriera, al massimo raggiungeva i gradini più bassi del podio (il milanista si piazzò secondo nel 1989), dietro ad attaccanti e fantasisti vari, ruoli prediletti dai giurati.

Per me, però, quella Coppa sarà sempre legata indissolubilmente al ricordo del gol del giovane numero 10 e dell'esultanza di tre tifosi, in una camera da letto diventata tribuna da stadio, per qualche ora, una mattina di novembre.

giovedì 2 novembre 2017

La festa dei Morti

Quando ero bambino, il 2 novembre era un giorno speciale. Non solo perché era la "festa dei morti" e non si andava a scuola per andare a far visita ai propri cari al cimitero ma anche perché in Sicilia tradizione voleva che gli stessi, nella notte fra l'1 e il 2, portassero doni e dolci a chi si era comportato bene e carbone a chi invece era stato "monello". 
Insomma una ricorrenza che andava a tutti gli effetti ad aggiungersi, per modalità e aspettative infantili, al Natale e che, per un bambino siciliano, era addirittura più importante e "remunerativa" della "Befana" (che al massimo, se andava bene, anche a causa della vicinanza col Natale, ti portava qualche dolce o poco più).
Lo scrittore Andrea Camilleri, che la racconta ne Il giorno dei morti, fa parte più della generazione dei miei nonni che di quella dei miei genitori, per cui è ovvio che fra i suoi "tempi" e i miei siano intercorsi parecchi mutamenti nelle usanze e nella mentalità. Ma la "festa dei morti" ha resistito nel tempo ed è rimasta una ricorrenza celebrata per decenni. E di fatto, con le dovute differenze - ogni tradizione che si rispetti viene comunque tramandata ed applicata in contesti sociali figli del proprio tempo - le aspettative, l'emozione e la felicità espressi dall'autore per la "visita" notturna dei propri defunti nella Porto Empedocle degli anni Trenta sono esattamente le stesse che provavo io in attesa dell'arrivo dei miei morti nella provincia messinese a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta.

Narra Camilleri: "Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi". 

I nostri morti, molto lontani dall'immaginario horror di Halloween, non ci facevano affatto paura, anzi ci auguravamo che, oltre ai nonni, venissero eventualmente a farci visita anche altri anziani parenti acquisiti (prozii, bisnonni e chi più ne ha più ne metta), bontà loro! Perché ogni murtittu corrispondeva a un dono.

Prosegue lo scrittore: "Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio".

Noi invece non mettevamo il cesto. Io sicuramente no ma non ricordo nessuno dei miei coetanei che lo facesse. In generale dovevamo solo preoccuparci di andare a letto il prima possibile - poi, più grandicello, avrei capito che dal mio sonno dipendeva l'inizio della preparazione e dell'incartamento dei doni da parte dei miei genitori - e di addormentarci rapidamente. Questa sì, cosa assai più difficile, dato che, come descrive magistralmente Camilleri "eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto"

Ma alla fine, senza rendercene conto, crollavamo. "Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all'alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo"

Ecco, al di là dei singoli dettagli, la descrizione di Camilleri, se sei un quarantenne siciliano, è inebriante, ti entra dentro e ti attraversa, perché sembra che stia parlando proprio di te. In realtà è esattamente ciò che generazioni e generazioni di siciliani, da bambini, facevano, sentivano e provavano la mattina del 2 novembre, appena svegli. 
Quando il peso della notte sugli occhi si dissolveva e mi rendevo conto che era già mattino, scattavo in piedi - che differenza rispetto a quando dovevo alzarmi dal letto per andare a scuola! - e insieme ai miei fratelli cominciavo la "caccia al tesoro". Anche se non c'era il cesto, infatti, la proverbiale giocosità dei morti era rimasta immutata nel corso degli anni. E andare in giro per casa ancora in pigiama in cerca di regali nascosti, e magari impazzire di gioia per aver scovato un pacchetto sotto al materasso, è uno dei miei ricordi infantili più vividi e belli.

"I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall'aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre"

Ogni epoca ha i suoi giocattoli. Ma io ricordo che qualche volta, con malcelato disappunto, ricevevo anche i classici "regali utili" (per esempio un maglione o una tuta o un paio di scarpe) e che mia madre mi diceva che me lo aveva portato il nonno di Montagna(reale) o quello di San Piero (Patti), che mi osservavano da lassù e conoscevano ogni mio desiderio e necessità. Certo, i doni più graditi erano i giocattoli, non ce n'è. Per esempio, ricordo un anno un pupazzetto del wrestling e un altro anno un He-Man per i quali i miei cari defunti meritarono una preghiera aggiuntiva quando, più tardi, andai a trovarli al cimitero (non che pensassi a loro solo materialisticamente ma ero piccolo e, ovvio, diciamo che il giocattolo rappresentava una motivazione in più).

Poi c'erano i dolci che, come racconta ancora Camilleri, "erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza".

Ossa di morto e frutta martorana 2 novembre
Le "ossa di morto" e la "frutta martorana"
Non conosco "il pupo di zucchero" ma, insieme ai regali, non mancava mai 'na guantiera di "ossa di morto", biscottini tipici della commemorazione dei defunti a cui viene data la forma "spaventosa" di osso (Halloween in ogni caso ci faceva un baffo!), e la "frutta martorana", cioè il marzapane di cui parla anche l'autore. In realtà, pur mangiandoli, né io né i miei fratelli ci andavamo matti ma in compenso piacevano tanto ai nostri genitori, quindi i morti continuavano a portarceli ogni anno, a prescindere.

"A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo".

Spesso il 2 novembre c'era un bel sole, per cui, dopo aver portato dei fiori al cimitero e aver detto delle preghiere di ringraziamento ai nostri cari, ci attardavamo con i coetanei nella discesa verso la Chiesa di Santa Caterina o andavamo nella piazzetta o camminavamo per le vie del Paese e ci facevamo a vicenda un dettagliato rapporto su cosa avevamo trovato e su quale parente defunto ce lo avesse portato. Io mi sono sempre reputato molto fortunato perché la mattina, dedicata in genere ai parenti materni, scartavo i regali sia dei morti di mamma che di quelli di papà ma nel pomeriggio, quando ci recavamo al paese di quest'ultimo per far visita stavolta ai congiunti paterni, c'era sempre qualche altro dono che il nonno aveva lasciato per me e i miei fratelli anche a casa della nonna dopo essere passato a casa mia la notte precedente.

"Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine". E aggiungo che, almeno per un giorno, era come riaverli lì con noi, in carne ed ossa.

Per Camilleri, ad un certo punto però, arrivò Babbo Natale: "Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli"

Forse per la generazione dello scrittore agrigentino l'albero di Natale fece progressivamente "smarrire la strada" ai morti ma credo che, in qualche momento della storia successiva e in qualche modo, i defunti questa strada l'avessero alla fine ritrovata. Infatti, la mia generazione, che invece era nata identificando in Babbo Natale, nell'albero e e nelle relative strenne una consolidata tradizione (consumistica e pagana magari, ma pur sempre una tradizione), fu fortunata a poter accogliere nuovamente ogni anno "nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre" questi affettuosi congiunti che ci avevano tanto amato in vita e non si scordavano di noi bambini nemmeno dall'aldilà.

Leggendo la conclusione del racconto di Camilleri, però, ho sentito una sorta di retrogusto di "corsi e ricorsi storici": "Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire".

Sinceramente, da quando non sono più bambino (quantomeno anagraficamente), non so con certezza se la tradizione della "festa dei morti" si sia definitivamente persa o se continui in qualche modo nelle case siciliane. Ma lo dubito fortemente. Oggi, con la globalizzazione, si festeggia Halloween. Se chiedessi ai miei nipotini, oltre all'americanata del "dolcetto o scherzetto", probabilmente nessuno dei due mi saprebbe indicare un'altra "festa" che cade in questo periodo. E alla fine, riflettendoci, mi pare di capire e di sentire la stessa delusione che traspare dalle ultime righe del racconto dell'anziano scrittore. Pare proprio che la strada che i cari estinti percorrevano il 2 novembre per venirci a trovare e per portarci i loro doni - dove per un periodo si erano piantati alberi di Natale - oggi sia stata definitivamente chiusa per far spazio ad una più remunerativa piantagione di zucche.

(i testi di Andrea Camilleri sono tratti dal racconto breve "Il giorno dei Morti", dal libro "Racconti quotidiani")