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venerdì 2 febbraio 2018

La storia del linciaggio di New Orleans: quando anche noi eravamo "sporchi negri"

Oggi come non mai, pruriti razzisti e finti patriottismi sono al centro della discussione politica italiana ed internazionale e solleticano pericolosamente l'immaginario di parte della nostra società. I Salvini o i Trump sono predicatori d'odio ai fini elettorali e, purtroppo, funzionano perché offrono a chi sta peggio una valvola di sfogo, un diversivo su cui scaricare le frustrazioni della propria quotidiana miseria. Come se far star male qualcun altro potesse far star bene noi stessi.
In Italia, prima era Nord contro Sud (lo è ancora ma se ne parla molto meno in nome di un nemico comune), ora è italiani contro immigrati. In America, bontà loro, non hanno mai smesso di discriminare neri e latinos, ma da un po' di tempo a questa parte hanno decisamente rinvigorito la fiamma sotto alla graticola. La storia si ripete. Sempre.
I fascio-leghisti probabilmente dimenticano - o peggio, non hanno mai studiato - i flussi migratori italiani. Soprattutto quelli verso le Americhe di fine Ottocento e inizio Novecento, quando i nostri connazionali venivano considerati alla stregua, se non peggiori, dei tanto vituperati migranti odierni.
Sì perché si fa presto, oggi, a dire che gli Italian-Americans (malavita a parte) occupano posizioni di primissimo piano nella società statunitense. La storia ci dice che non è stato sempre così.
Per esempio, sono certo che i moderni xenofobi di casa nostra non sappiano che il più grave linciaggio di massa della storia degli Stati Uniti avvenne ai danni di italiani, a New Orleans, nel 1891.
Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, circa 10 milioni di italiani da tutte le regioni del bel paese emigrarono verso gli Stati Uniti. Grazie a una rotta navale che la collegava con Palermo, moltissimi siciliani arrivarono a New Orleans. Come in molte altre città americane, anche qui, gli immigrati italiani si sistemarono in un quartiere della città che prese il nome di Little Palermo. Di fatto, l'intenzione della maggior parte di loro era quella di lavorare in America per qualche anno e, dopo aver messo da parte dei soldi, di fare ritorno in Italia dalle proprie famiglie. Pertanto, l'integrazione non rappresentava affatto una priorità.
Strano: questa storia mi sembra di averla già vista da qualche altra parte...

Italiani non ammessi fra il personale delle aziende americane nell'Ottocento
"Italiani non ammessi", recitano le condizioni di un appalto pubblico

Ma torniamo alla vicenda di cui sopra.
Già nel 1888, il quotidiano locale The Mascot aveva pubblicato una vignetta dal titolo "Per quanto riguarda la popolazione italiana" che raffigurava alcune scene di vita degli immigrati italiani, intenti a bighellonare e a dar fastidio ai passanti, rinchiusi a dormire in stanze sovraffollate e dediti alle risse con coltelli e bastoni, "un rilassante passatempo pomeridiano". E dire che, fra i nostri connazionali, c'era anche un sacco di gente che si spaccava la schiena di onesto lavoro!

Se i patrioti nostrani leggessero di questa vicenda, già mi immagino il moto di indignazione per la meschina generalizzazione! Per fortuna che non ne hanno il tempo, così occupati a fare di tutta l'erba cattiva - africana o islamica o "zingara" che sia - un fascio (sì, il gioco di parole è voluto).

Nella vignetta veniva anche data la ricetta per risolvere il problema: "liberarsi di loro" uccidendoli oppure manganellarli e arrestarli. Colpevoli a prescindere. Tutti. E tanti saluti allo stato di diritto.

Il quotidiano di New Orleans The Mascot pubblicò nel 1888 una vignetta razzista contro gli immigrati italiani
La vignetta di The Mascot

Il sentimento anti-italiano era così diffuso che nel 1891 la vignetta del The Mascot, in un certo senso, prese vita. La scintilla che fece divampare l'incendio - era solo questione di tempo, come abbiamo visto - fu l'omicidio del capo della polizia di New Orleans, David Hennessy, avvenuto alla fine dell'anno precedente.
Hennessy avrebbe dovuto testimoniare in tribunale su una faida tra due famiglie mafiose rivali, i Provenzano (un nome una garanzia!) e i Matranga, che si contendevano il controllo del porto. A New Orleans la corruzione imperversava e Hennessy non faceva eccezione. Il suo ruolo gli permetteva di avere le mani in pasta un po' dappertutto in città. Soprattutto, intascava tangenti ed era risaputo che fosse a libro paga dei Provenzano, nonostante fosse irlandese e i rapporti fra italiani ed irlandesi, a quei tempi, fossero notoriamente molto tesi. Ma - come dicevano i latini - pecunia non olet.

Si diceva che, al processo, Hennessy avrebbe scagionato i Provenzano, implicando invece i Matranga e probabilmente per questa ragione, la notte del 15 ottobre, mentre rientrava a casa, venne colpito dalle fucilate esplose da uomini non identificati. L'amico capitano O'Connor, accorso dopo avere sentito gli spari, avrebbe poi detto che Hennessy gli aveva sussurrato la frase "Dagos did it", cioè sono stati i dagos, slang dispregiativo con cui venivano genericamente indicati gli immigrati italiani.
Non importa che l'unico ad aver sentito quella frase fosse stato O'Connor né che il poliziotto - tornato cosciente in ospedale prima di peggiorare improvvisamente e morire la mattina seguente - non l'avesse ripetuta a nessun altro, addirittura neanche a un giudice che gli aveva fatto visita in ospedale nella notte.

Ma non fu necessario. Il pregiudizio arriva a sentenza senza che vi sia alcun processo. È l'intolleranza, baby.

La stampa locale fece da cassa di risonanza al peggior razzismo. Il sindaco di New Orleans, Joseph Shakespeare, scrisse che "il clima mite, la facilità con la quale ci si può assicurare il necessario per vivere e la natura poliglotta dei suoi abitanti, hanno fatto sì che, sfortunatamente, questa parte del Paese sia stata scelta dai disoccupati e dagli emigranti appartenenti alla peggiore specie di europei, i meridionali italiani...gli individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistano al mondo, peggiori dei negri e più indesiderabili dei polacchi...Dobbiamo dare a questa gente una lezione che dovranno ricordare per sempre".
Partì una vera e propria caccia razziale. Dopo una massiccia operazione per cui la polizia aveva l'ordine di arrestare ogni italiano sospetto, si arrivò al processo per diciannove imputati, undici dei quali accusati di aver avuto parte attiva nell'omicidio. Tra di loro c'erano i boss Macheca e Matranga ed altri malavitosi, ma anche dei poveri lavoratori che non avevano mai avuto problemi con la legge né legame alcuno con la criminalità. 
Nel mese di marzo del 1891, alla fine di un controverso dibattimento caratterizzato da prove esili e ben sessantasette testimoni d´accusa - ma il famigerato capitano O'Connor non venne neanche ascoltato durante le udienze! - la giuria popolare emise un verdetto di non colpevolezza per otto degli undici imputati, e non riuscì a raggiungere un verdetto unanime per tutti gli altri. 

Ma il razzismo non sente ragioni e non conosce diritti

Con una forzatura giuridica, tutti gli arrestati vennero trattenuti in carcere. Non fu sufficiente a placare la rabbia intollerante della popolazione.
Avete presente quando qualcuno commette un reato e, se è straniero, da noi parte il solito tam-tam delle ronde, dell'Italia-agli-italiani e degli immigrati-tutti-delinquenti? Ecco, il giorno dopo a New Orleans, i giornali pubblicarono questo comunicato: "Tutti i bravi cittadini sono invitati a partecipare all'assemblea convocata sabato 14 marzo alle 10 alla Clay Statue, per prendere provvedimenti rispetto al fallimento della giustizia nel caso Hennessy. Arrivare pronti all'azione"
Il 14 marzo, dunque, circa 3.000 persone si recarono alla prigione. La folla inferocita abbatté le porte e uccise barbaramente undici persone di origine italiana, alcune di loro neanche legate al processo, mostrando poi i corpi martoriati come trofei di caccia. Uno dei capi della sommossa fu John M. Parker, uno che oggi in Italia sarebbe conteso da Lega e Forza Nuova - per dire - ma che ai tempi era considerato un sincero democratico, tanto da diventare successivamente Governatore della Louisiana ed affermare, nel 1911, che gli italiani sono "solo un po' peggio dei negri, essendo forse anche più sporchi nelle proprie abitudini, più fuorilegge e più infidi"

Ma in effetti - pensandoci bene - anche Salvini da noi viene considerato un sincero democratico.

E come in tutte le migliori storie di discriminazione, i fatti di New Orleans vennero sdoganati come una giusta reazione contro chi se l'era cercata e meritata. Teddy Roosevelt, futuro Presidente degli Stati Uniti, disse che aver dato "una lezione a quella razza" era stata "una buona cosa" Il New York Times definì le vittime del linciaggio come "siciliani furtivi e codardi, discendenti di banditi e assassini". Un altro editoriale affermò che "la legge del linciaggio era l'unica possibile per la gente di New Orleans". E via andare con il festival dell'odio razziale.

Si aprì una complessa crisi diplomatica tra Italia e Stati Uniti. L'ambasciatore italiano Fava venne richiamato dal presidente del Consiglio Starrabba di Rudinì. Il problema è che i diplomatici del Regno d'Italia erano nobili mentre le persone di cui dovevano occuparsi erano dagos, una razza inferiore, scuri di pelle, quindi trattati dagli americani come i negri. Insomma, gente per cui indignarsi non aveva molto senso. D'altro canto le teorie di celebrati pseudo-scienziati del tempo, come Cesare Lombroso, giustificavano totalmente queste considerazioni.
Per cui l'ambasciatore fece presto ritorno negli USA e la questione fu chiusa - non senza le proteste del Congresso americano - con un indennizzo pagato alle famiglie delle vittime con i fondi a disposizione del Presidente.

Col tempo, però, le vittime hanno spesso la possibilità di trasformarsi in carnefici. Basta solo attendere il proprio turno. E questo è quello che è successo anche a noi italiani. E - se vogliamo entrare ancor più nel dettaglio - questo è successo soprattutto ai meridionali che prima venivano presi a pesci in faccia dai leghisti e oggi plaudono al Salvini versione patriota, eroico argine all'usurpatore straniero.
Ci sarà sempre, per ogni razza, società o individuo, l'occasione di trovare uno più debole su cui scaricare le frustrazioni accumulate a causa della crisi economica o delle proprie sfortune o dei soprusi di chi esercita il potere. E, soprattutto, a soffiare su ogni fuocherello d'odio, ci sarà sempre un "salvatore della patria" su cui riporre le proprie vane speranze di riscatto. Per sentirsi un po' meno dagos e un po' più "bianchi".

lunedì 8 gennaio 2018

#L8ioLotto, la protesta dei #DocentiMagistrali di tutta Italia a Roma


Migliaia di maestre e maestri della scuola dell'infanzia e primaria hanno scioperato oggi per aderire alla protesta nazionale contro la decisione del Consiglio di Stato di negare ai precari diplomati magistrali pre 2001/02 la presenza nelle Graduatorie a Esaurimento (GaE).

Con loro varie associazioni e sigle: SAESEMida Precari, ADIDA, La voce dei giusti, Cobas, CUB, AniefSNALS e Gilda.
"Speravamo nella solidarietà anche dei colleghi di ruolo e non, in questa battaglia, per la quale sarebbero dovuti starci accanto" - ha commentato una docente - "ma purtroppo non è stato così".
Non sono mancate le critiche anche ai sindacati confederati.
Una portavoce dell'Anief ha invece espresso la sua soddisfazione perché "volevamo dare un segnale forte al Ministero e credo che oggi ci siamo riusciti. Molte scuole sono rimaste chiuse. I diplomati magistrali sono con noi in piazza e oggi si deve prendere una posizione definitiva. Per noi la soluzione è quella di riaprire le graduatorie ad esaurimento per chi ha l'abilitazione, senza fare concorsi o fasi transitorie".
E proprio una delegazione dell'Anief e dei Cobas è stata ricevuta in mattinata al Miur. La richiesta al ministero è quella di un decreto legge urgente per riaprire le graduatorie ad esaurimento per il personale docente abilitato e confermare nei ruoli i docenti già assunti con riserva. Così da garantire la continuità didattica ma anche l'assunzione per merito, la parità' di trattamento, la ragionevolezza nell'incontro tra domanda e offerta di lavoro nei due ambiti scolastici. Anche perché - ed è forse la cosa più stupefacente di questa vicenda - "in molte province le GaE sono esaurite, pure in presenza di personale abilitato a cui non e' stato consentito l'inserimento. Mentre in molti casi, gli stessi 44.000 diplomati magistrali inseriti con riserva nelle GaE e i 6.000 assunti in ruolo con riserva, quand'anche saranno licenziati per effetto del giudizio di merito orientato dalla sentenza plenaria, si ritroverebbero dopo un 'balletto' di supplenze a essere richiamati come precari, con grave danno alla continuita' didattica", come sostenuto da Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief.

Comunque vada a finire, rimane evidente una contraddizione tipicamente italiana: questi insegnanti servono al sistema formativo del nostro Paese (anche solo valutando la questione in termini strettamente numerici) e hanno maturato ormai una lunga esperienza sul campo (che qualunque datore di lavoro, diverso dallo Stato, considererebbe preziosissima in termini di qualità e rendimento). Ma si trovano costretti a una corsa ad ostacoli, in questa "guerra fra poveri" con altri colleghi.

Tutto bene. L'importante è che poi non ci si lamenti della decadenza della scuola pubblica. 






sabato 6 gennaio 2018

#DocentiMagistrali: l'odissea degli insegnanti diplomati

Gli striscioni di protesta che gli insegnanti diplomati magistrali porteranno a Roma
La protesta dei docenti magistrali
In precedenza, ben cinque sentenze del Consiglio di Stato avevano inserito gli insegnanti in possesso di un diploma magistrale conseguito entro il 2001/2002 nelle Graduatorie a Esaurimento (cioè le graduatorie a cui sono iscritti i docenti in possesso di abilitazione all'insegnamento e che sono utilizzate per l’assunzione in ruolo). Poi, la "beffa". Lo scorso 20 dicembre, infatti, lo stesso Consiglio di Stato a sezioni riunite - con una giravolta - ha smentito se stesso e ha deciso in via definitiva che i diplomati magistrali pre 2000/01 dovranno essere esclusi dalle GaE ed inseriti nelle Graduatorie d’istituto, quelle che vengono utilizzate per le supplenze annuali e temporanee.

Una sentenza che - spiegano i Cobas, Comitati di Base della Scuola - “va contro tutte le precedenti sentenze che in questi anni avevano dato ragione a decine di migliaia di docenti che adesso si vedono negare persino il diritto all'inserimento nelle Graduatorie a Esaurimento, e che vengono retrocessi a docenti di serie C. Questa sentenza pone drammatici problemi, professionali ed umani, ai diplomati magistrali. Molti/e di loro hanno avuto nomine annuali dalle GAE, in diversi/e sono già stati/e immessi in ruolo, e ora, oltre alla perdita del posto di lavoro, rischiano di ritrovarsi improvvisamente reinseriti in seconda fascia o, secondo un’interpretazione ancora più penalizzante della sentenza, addirittura in terza fascia. La situazione è molto delicata perché - continuano - “se i tribunali dovessero far decadere tutte le supplenze e le immissioni in ruolo, la scuola primaria e quella dell’infanzia entrerebbero in un caos totale”.

La decisione del Consiglio di Stato costringe i docenti penalizzati dalla sentenza "a riabilitarci ancora una volta attraverso corsi a pagamento organizzati da non si sa chi - denuncia una di loro, esprimendo la propria delusione - siamo condannati al precariato. Ho già dato tutta la mia giovinezza, adesso basta!".

E mentre la politica sta a guardare, si consuma l'ennesima "guerra fra poveri": da una parte i maestri e le maestre che, con il vecchio titolo preso entro il 2001/2002, insegnano nella scuola con impegno e dedizione già da parecchi anni in condizioni di precariato; dall'altra gli aspiranti maestri e maestre d’infanzia che, esclusi dalle assunzioni della Buona Scuola, hanno attaccato l’inserimento dei magistrali a seguito delle precedenti sentenze amministrative.

L'hashtag lanciato dai docenti colpiti dalla sentenza
In sostanza, invece di fare fronte comune contro le inadempienze di chi dovrebbe risolvere la situazione di costante incertezza in cui versa il corpo docente del nostro Paese - che, fino a prova contraria, dovrebbe essere una risorsa su cui puntare e non un problema - si preferisce questo approccio di "mors tua vita mea". Tutto ciò, non solo si colloca agli antipodi della solidarietà che dovrebbe esserci fra lavoratori (oltretutto, della stessa categoria), ma danneggia l'intero sistema formativo italiano, considerato che, in questa situazione di confusione ed incertezza, non ci sono le condizioni per garantire la continuità delle lezioni e della gestione degli alunni.
I precari diplomati magistrali, e le associazioni a sostegno, si ritroveranno a Roma il prossimo 8 gennaio per una manifestazione di protesta.

"Io sto lavorando da anni senza demerito alcuno, mai, sempre a disposizione di tutto e tutti", conclude la docente. Una perfetta sintesi di questo nuovo capitolo che una classe politica inetta - nessuno escluso - sta scrivendo nella lunga storia di mortificazione della scuola italiana.

Leggi anche: #L8ioLotto, LA PROTESTA DEI #DOCENTIMAGISTRALI DI TUTTA ITALIA A ROMA 

mercoledì 20 dicembre 2017

Vittorio Emanuele III

Mi appassiona poco il dibattito sull'opportunità o meno di permettere il rientro in Italia delle ossa del re Vittorio Emanuele III e della regina Elena del Montenegro.
Certo, ritengo che la pretesa del nipote di farle tumulare, con tutti gli onori, al Pantheon (dove riposano Vittorio Emanuele II, re Umberto I e la regina Margherita) sia frutto della solita inaccettabile arroganza a cui ci ha abituati, nel corso degli anni, il soggetto. Di fatto, Vittorio Emanuele III sta bene nel Santuario di Vicoforte nel cuneese, dove sono state collocate le spoglie del sovrano. Qualcuno dovrebbe spiegare all'attuale Vittorio Emanuele -e magari ricordarglielo ogni quarto d'ora - che suo nonno, per puro "tengo famiglia" più che per profondo convincimento (e l'ignavia è in genere forse anche peggio di una nefandezza commessa intenzionalmente), lasciò campo libero a Mussolini ed al fascismo, avallando addirittura le leggi razziali. Un sovrano del genere per cosa dovrebbe essere onorato, esattamente? Che i Savoia incassino il risultato di aver potuto rimpatriare i resti del nonno in silenzio, piuttosto, altro che Pantheon!
Mi interesserebbe molto, invece, sapere se effettivamente ho contribuito - con le mie tasse - a finanziare questo rientro (è vera la storia del volo di Stato?). E, nella mia ignoranza, non capisco perché mai gli Alpini siano stati reclutati per suonare il silenzio durante la benedizione della bara avvolta nella bandiera di casa Savoia, avvenuta sul sagrato del Santuario, considerato che è vero che i celebri militari prima rappresentavano le truppe da montagna del Regio Esercito, ma che, credo, sia un dato di fatto che il Regio Esercito non esiste più da una settantina d'anni, quando fu rimpiazzato dall'Esercito Italiano, che oggi serve la Repubblica e, quindi, non più i Savoia.

Insomma, concettualmente non me ne frega nulla che le ossa di Vittorio Emanuele III siano tornate in Italia perché sono d'accordo con chi dice che "bisogna lasciare in pace i morti". Ma, d'altro canto, capisco - e in gran parte condivido - l'incazzatura della comunità ebraica e dell'Anpi per tutto il resto.

Però c'è un aspetto che, da uomo del Sud, non digerisco proprio. Il fatto che il nome di un Savoia, addirittura colluso con il fascismo, oggi stia ancora "appiccicato" a piazze, strade o istututi scolastici sparsi per l'Italia. La mia scuola, per esempio. A Patti, in provincia di Messina.
Nel 2011 il liceo classico dove ho studiato celebrava il suo 75° anniversario. Io - sapendo perfettamente che l'effetto sarebbe stato più quello di sfogare la mia frustrazione che altro - scrissi questa lettera. Ovviamente la scuola si chiamerà "Liceo Classico Vittorio Emanuele III" vita natural durante, che ve lo dico a fare?

la lettera aperta al liceo classico Vittorio Emanuele III

mercoledì 8 novembre 2017

Cateno De Luca

Cateno - nomen omen - De Luca, neo deputato regionale, è un recordman. Inserito nella lista degli impresentabili a supporto di Nello Musumeci, è stato arrestato appena due giorni dopo la sua elezione. Devo ammettere che non conoscevo il curriculum di cotanto politico della mia regione, per cui sono andato a documentarmi sugli highlights della sua carriera.
Già militante della DC dal 1986, diventa sindaco di Fiumedinisi (Messina) nel 2003. Successivamente, nel 2006, viene eletto per la prima volta all'Assemblea regionale siciliana (XIV legislatura) nella lista del Mpa dell'ex governatore Raffaele Lombardo e, nel 2008, per la seconda volta (XV legislatura). 
Nel 2007, in segno di protesta per la propria estromissione dalla commissione Bilancio dell’Ars, si presenta nella sala stampa dell’Assemblea regionale seminudo, con la bandiera della  Trinacria a mo' di pareo, in una mano la statuetta di Pinocchio e nell'altra una Bibbia.
E già da questo si dovrebbero capire tante cose...

Cateno De Luca si sveste in segno di protesta con l'ARS
La singolare protesta di Cateno De Luca

Invece nel 2010 diventa capogruppo all’Ars di Forza del Sud, fondata da Gianfranco Miccichè. Nel 2011 viene arrestato per tentata concussione e abuso d’ufficio (ma la Cassazione definisce “ingiusta” la sua detenzione) e - nell'ambito del processo ancora in corso con sentenza attesa entro il prossimo mese di dicembre - viene chiesta una condanna a 5 anni
Alle elezioni dello scorso 5 novembre, come detto, si candida con l'UDC a sostegno di Musumeci e viene eletto con 5.418 voti.
Ora, al di là del fatto che più di cinquemila siciliani abbiano (ri)votato uno che protestava seminudo, con la coppola, armato di un pinocchio e una bibbia (in alcuni casi la mia avversione alle teorie lombrosiane viene messa a dura prova...), ci sarebbe da chiedersi come faccia uno così a riscuotere tanto consenso. Ma non ce lo chiederemo, confidando che prima o poi arrivi un misericordioso asteroide a estinguerci, come direbbe il giornalista Andrea Scanzi.
Qualcuno potrebbe gridare alla "giustizia a orologeria" (definizione buona per tutte le stagioni ormai), ma se così fosse stato, l'arresto sarebbe arrivato prima delle elezioni - magari per danneggiare la campagna elettorale del nostro eroe - e non dopo.
Ma non è neanche questo il problema. Diciamo che il garantismo fa di De Luca una persona innocente e cristallina fino almeno al terzo grado di giudizio.
Il punto reale è che uno con un processo sul groppone, oltre ad altre vicissitudini giudiziarie più o meno superate, dovrebbe avere il buonsenso - se non la decenza - di chiamarsi fuori da qualunque contesa elettorale, anche quella del proprio condominio. E dovrebbe prima pensare a risolvere i propri problemi e solo dopo, se giudicato innocente, potrebbe eventualmente tornare ad occuparsi della cosa pubblica.
A seguito dell'arresto, però, De Luca ha affidato a Facebook la propria auto-assoluzione preventiva definendosi, come fanno troppi altri suoi colleghi in situazioni analoghe, un "perseguitato" e chiudendo il post, a corredo di una sua foto mentre beve un caffè, con la frase “Vi saluto offrendovi virtualmente il caffè del galeotto". Il neo-deputato è fatto così, gli piace scherzarci su...
D'altro canto mica è colpa sua se la gente lo vota. This is Sicily, this is Italy.

venerdì 27 ottobre 2017

Luigi Genovese

***Aggiornamento del 23/11/2017***

Un post condiviso da TheGianlucaTV (@thegianlucatv) in data:

Luigi Genovese è un giovane di 21 anni, figlio di un "monarca" della politica messinese, siciliana ed italiana, Fancantonio, ex PD sacrificato da Renzi - "spot elettorale" dell'ex Premier su onestà e presentabilità dei politici - e fatto arrestare dopo relativa autorizzazione della Camera, decisivi i voti del suo stesso partito. Poco dopo Genovese per vendetta passò armi e bagagli a Forza Italia (e, nella logica malata della politica nostrana, ne aveva anche tutte le "ragioni", considerato che, tanto per fare un esempio, un anno dopo il Senato avrebbe negato l'autorizzazione all'arresto di Antonio Azzollini del Nuovo Centrodestra alleato del PD).
Luigi Genovese, per la giovane età, non ha esperienze politiche alle spalle e si presenta alle prossime elezioni regionali siciliane come il più classico "nuovo che avanza": faccia imberbe da bravo ragazzo, occhialini da "secchione", sorrisi, gentilezza e belle parole - quelle sì da politico navigato - quando risponde alle scomode domande che tanti gli fanno su suo padre. Ecco, magari Luigi è proprio un bravo ragazzo che vorrebbe impegnarsi per la sua regione ma - proprio perché, volente o nolente, diventerà presto deputato regionale non per i suoi programmi, per le sue idee o per le sue capacità ma piuttosto perché figlio di cotanto padre ed in virtù del pacchetto di voti di cui questi è "depositario" - almeno ci faccia il piacere di evitarci i patetici tentativi di convincerci del fatto che meriti credito come "entità" politica autonoma credibile e indipendente dal famoso genitore.
Perché "le colpe dei padri non ricadono sui figli", è vero, ma è altrettanto sacrosanto che i figli devono prendersi le proprie responsabilità quando scelgono di diventare strumento dei padri (e magari sono anche contenti di esserlo, per carità) per garantire la conservazione e la continuità degli stessi.

Quindi, quando Luigi Genovese posta un video del genere, è responsabile dell'immagine quantomeno equivoca che ne scaturisce, considerate le vicende giudiziarie del padre sull'argomento.

E chiaramente gli avversari colgono la palla al balzo per sottolineare le estreme contraddizioni evidenziate dai propositi del futuro deputato regionale.

"Perché pare più uno scherzo - scrive il Movimento 5 Stelle Sicilia - Francantonio Genovese ha subito una condanna a 11 anni di carcere per associazione per delinquere, riciclaggio, peculato, frode fiscale e truffa. Con lui sono stati condannati anche il cognato (deputato regionale uscente), la moglie e la cognata. L'accusa ha spiegato come avrebbero sottratto "importanti risorse in un settore strategico e vitale come la formazione professionale, con tanti giovani in cerca di lavoro”. Fondi che, secondo quanto sostenuto dai pm, arrivavano sì dalla Regione ma anche dal Fondo Sociale Europeo.
A guardarlo sorge subito spontanea una risata, amara, ma un attimo dopo, però, il pensiero si incupisce e sorge un dubbio, per noi più che legittimo: non sarà mica un messaggio lanciato all'enorme bacino elettorale del padre? Sapete come è stato ribattezzato? “Mister 20 mila preferenze".

Genovese jr., invece, usa la tattica del "gentil giovine" dalla faccia pulita che chiede solo amore e ripete che sarebbe candidato anche senza quel cognome (certo, ma forse alla carica di capoclasse), che "conta l’entusiasmo" (certo, ma per la sua elezione più quello del padre che il suo) e chiede ai detrattori di valutarne nel merito le idee e le azioni (certo, se solo fossero farina del suo sacco).

La realtà è che se davvero il rampollo volesse essere valutato senza il (dolce) fardello dell'eredità che si porta dietro, dovrebbe fare una cosa molto semplice: rinunciare alla "successione al trono", attendere un paio di giri (diciamo almeno 10/15 anni) e solo allora, quando radersi sarà diventato per lui un problema quotidiano, se ancora avesse aspirazioni politiche, magari potrebbe provarci "mettendosi in proprio". Ecco, solo in quel caso si potrebbe guardare con rispetto e distacco alla sua candidatura.
Altrimenti i paragoni con Cetto Laqualunque continueranno a sprecarsi. Anche se, secondo la meno innovativa delle usanze politiche, temiamo che il ragazzo, dal comodo della poltrona dell'ARS, sopporterà senza troppa fatica qualche presa in giro.

lunedì 2 ottobre 2017

Referendum Catalogna: eversione VS repressione


Quello che è avvenuto ieri in Catalogna è agghiacciante.
Agghiacciante che si arrivi ad atti di vera e propria guerra civile, con la polizia nazionale che - rimpiazzando la polizia catalana rifiutatasi di intervenire - manganella la gente comune recatasi ai seggi per votare il referendum indetto dalla Generalitat, il governo regionale.
Ma è altrettanto agghiacciante che la gente sia andata alle urne per una pseudo-consultazione che non si sarebbe neanche dovuta celebrare in quanto illegittima e palesemente incostituzionale. Una vera e propria provocazione del governo locale a quello nazionale.
Insomma, la sensazione è che l'atto eversivo compiuto dal presidente catalano Carles Puigdemont sia stato pagato da cittadini che, in buona fede, pensavano di esercitare un diritto fondamentale e si sono ritrovati a subire la repressione - assolutamente eccessiva e da condannare come ogni altra violenza - da parte di uno Stato che esce da questo 1 ottobre "con le ossa rotte", per usare una metafora tragicamente ironica.
Sì perché moralmente gli indipendentisti hanno ottenuto quello che volevano. Cioè la simpatia e la solidarietà di quella parte della comunità internazionale (colpevolmente) poco informata o poco incline a ragionare secondo le leggi di uno stato di diritto. Senza andare troppo lontano, basta guardare certi titoli di alcuni quotidiani nostrani. 
In sostanza, che si possa considerare legittima o meno la causa degli indipendentisti catalani - e, per quel poco che ne so e per il contatto diretto che ho avuto e continuo ad avere con spagnoli (e catalani), moltissimi cittadini della Catalogna non sono affatto favorevoli alla secessione - una regione non può comunque decidere autonomamente di separarsi dal resto del Paese. E se cerca di farlo calpestando i diritti costituzionali di tutti gli altri (gli spagnoli non catalani hanno l'ugualmente valido ed opposto diritto di avere un Paese unito per esempio), sta commettendo un reato.
E se non capiamo questo, allora non dobbiamo meravigliarci quando il primo Zaia che passa parla di indipendenza del Veneto. Personalmente penso che oggi i nazionalismi "di ritorno", oltretutto estremizzati, siano antistorici e vengano usati come foglia di fico da parte di politici incapaci che hanno a che fare con controparti cosmopolite altrettanto incapaci.
C'è, però, la violenza che, pur non alterando la correttezza delle ragioni di fondo del governo spagnolo, produce un bruttissimo effetto e fa passare - ahimé - in secondo piano la gravità dell'atto compiuto ieri da Puigdemont e dal suo esecutivo. Poco importa che il movimento referendario non fosse proprio del tutto composto da gentiluomini (alcuni sindaci e amministratori locali contrari al referendum hanno denunciato intimidazioni e pressioni da parte dei nazionalisti catalani). Chi ha subito violenze sono soprattutto persone comuni che, in buona fede, volevano solo votare e, come scritto ieri dal giornalista Luca Bottura, "non si mena chi vota ma non si vota contro la legge".
Un'ultima considerazione di carattere calcistico. Ieri ho visto Gerard Piqué piangere e dirsi pronto a lasciare la nazionale spagnola "se sono diventato un peso". Questo dopo essersi recato alle urne la mattina ed aver dichiarato che era giusto votare. Libero di farlo ma mi sembra un po' confuso. Se stai in nazionale è perché ti senti spagnolo. Se ritieni che sia giusto fare un referendum per l'indipendenza metti come minimo in dubbio la tua (attuale) nazionalità. Quello che però non puoi fare è "stare col piede in due scarpe" facendo il capopopolo in maniera irresponsabile.