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lunedì 25 dicembre 2023

U focu di Natale dei carusi da Muntagna

C’è una tradizione muntagnara nel cuore di tutti: il falò della novena di Natale. Giovani e anziani. Donne e uomini. Fedeli o semplici amanti delle usanze di una volta. Tutti sono rapiti dalla magia del fuoco che brucia gli arbusti portati ogni mattina nella piazza della chiesa da valenti ragazzi che, fino alla notte di Natale, si svegliano all’alba per andarli a raccogliere.

Abbigliati come un incrocio fra un boscaiolo e un guerrigliero delle foreste dell’America Latina, con ammirabile spirito di sacrificio, varie generazioni di carusi del nostro paese hanno reso possibile il protrarsi di questo meraviglioso rito.

Ogni anno, finita la messa, grazie a loro riparte puntuale il crepitìo delle fiamme che si mescola al vociare sommesso dei fedeli che hanno assistito alla funzione religiosa. Il calore del fuoco che ristora i paesani infreddoliti e ne illumina i volti mentre si fermano per qualche minuto ad ammirare la maestosità di quello spettacolo vecchio come il mondo. Poi, piano piano, tutti si rimettono in moto pronti ad affrontare la giornata: lavoro o scuola che sia. Appuntamento al giorno dopo. Pillole quotidiane dell’atmosfera del Natale che si avvicina.

Fino alla notte più bella. I carusi si fanno in quattro per preparare uno spettacolo persino superiore a  quello che hanno offerto nei giorni precedenti. Mentre il sacerdote dice messa e il bambinello sta per venire al mondo, loro riscaldano l’ambiente per i paesani meno religiosi rimasti lì fuori (e intervenuti per puro spirito di aggregazione) alimentando di tanto in tanto le fiamme con rami e foglie. Il falò è pronto a divampare ma i ragazzi lo tengono a bada. “Compare, sta calmu chi ancora nun è ura”, sembrano dirgli. Quello prova a replicare, borbotta, ma desiste.

Mezzanotte. I fedeli salutano la nascita del salvatore e cominciano a uscire ammassandosi ai margini della piazza mischiandosi con chi era già lì. Suonano le campane. È il segnale. I carusi si muovono all’unisono per dare libero sfogo alla voglia del falò di stupire, di ipnotizzare, quasi soggiogare i muntagnari. I quali prima provano istintivamente a resistergli, fanno gli indifferenti, si scambiano saluti e auguri. Ma poi, uno dopo l’altro, volgono lo sguardo verso quello spettacolo e ne cadono dolcemente preda. Si abbandonano completamente ad esso.

Anno dopo anno. Generazione dopo generazione. Sempre grazie a quei giovani boscaioli improvvisati che non chiedono nulla in cambio. Gli bastano quei cuori riscaldati e quei volti rischiarati dal loro falò.




giovedì 24 dicembre 2020

Natale 'a Muntagna

Per me Natale è sempre stato la famiglia, u focu davanti a Chiesa, le vacanze spensierate, gli amici. Da piccolo, a dire il vero, anche le bombette, che chi ne comprava un pacco intero per capodanno ma, nel frattempo, le sparava in giro si sentiva u megghiu.

Ogni volta che penso a questo periodo, non so perché ma, prima di qualunque altro, mi viene subito in mente un episodio, in sé apparentemente privo di un significato particolare. Uno dei tanti momenti che, se vogliamo, sembra anche piuttosto banale rispetto ad altre occasioni di convivialità e spensieratezza tipiche delle festività natalizie.

In paese c'è fermento perché i carusi chiu ranni stanno raccogliendo la legna da usare per il falò della notte di Natale (o comunque per uno dei giorni di novena, non ricordo). Fanno su e giù con la macchina di quelli che, fra di loro, hanno già la patente. Caricano e scaricano. Si sente un gran vociare anche da casa mia.

Dopo aver passato qualche ora a casa ad ascoltare vinili con lo stereo di mio papà (ne avevo un paio miei e non facevo altro che editare e ri-editare compilation fai-da-te cercando di mixare le canzoni usando il play e pausa della piastra) e dopo aver registrato un qualche programma radiofonico in cui un tizio riassumeva i migliori pezzi dell'anno, esco anch'io.

L'atmosfera sembra quella del sabato del villaggio di Leopardi a-la-muntagnara.

Arrivo a Santa Caterina ma non trovo nessuno. Evidentemente anche i miei coetanei sono in piazzetta a fare da chiassoso contorno al lavoro di' chiu ranni (e magari a sparare qualche bombetta vantandosi della propria capacità di correre rischi temerari...). Passa Domenico con la 112, vestito da boscaiolo per l'occasione. Lo fermo e gli chiedo un passaggio offrendogli in prestito la mia ultima cassetta contenente il programma con le canzoni dell'anno presentato dal tizio di cui sopra. Acconsente, mi fa salire e mette subito il nastro nell'autoradio. (Quando qualcuno ascoltava le cassette che editavo, mi sembrava come se stesse ascoltando musica fatta da me e, in un certo senso, ne ero fiero...). Mi dice: "sì, ma chistu parra troppu supra a musica". Come dargli torto, quello riusciva a parlare anche per un minuto e mezzo di fila sulla stessa canzone!

Arriviamo davanti alla Chiesa, scendo. La casa di pietra che si affaccia sulla piazzetta, l'arco, la stradina stretta, i rami e le foglie accumulate a mucchietti per terra, un fuocherello già acceso, i carusi ranni vestiti da taglialegna, la luce soffusa, le risate e i botti: quello è il presepe che mi è sempre rimasto in testa. Quello è il mio Natale.

Più volte mi sono chiesto perché, al pensiero del Natale da piccolo 'a Muntagna, mi scatta automaticamente questo "banale" ricordo prima di tutti gli altri che conservo con affetto.

Una risposta, alla fine, l'ho trovata: la semplicità. Quella che da bambini ci sembra persino noiosa.  Che da ragazzini, a volte, addirittura avversiamo perché - anche giustamente - vogliamo di più. E che da adulti, nei momenti di difficoltà come quello che stiamo attraversando, ti fa dire: eravamo così felici e non lo sapevamo.

Buon Natale a tutti.

martedì 17 dicembre 2019

Patri Vasta

Padre Nunzio Vasta, anzi, Patri Vasta, come tutti lo chiamavamo, è stato per tanti anni il parroco del paese. Negli anni a cui risalgono i miei primi ricordi, lui era già u parrinu. E lo è stato per tutta la mia infanzia, catechismo compreso. Per quanto mi riguarda, quindi, si tratta di una di quelle persone che è entrata di diritto nel pantheon dei simboli da' Muntagna.

Di Patri Vasta ho ancora nelle orecchie il richiamo che ci indicava che il tempo per il gioco era finito e dovevamo recarci nella sala parrocchiale per il catechismo. Quel suo eentriaaamooo pronunciato dalla soglia della porta quasi come una litania. E custodisco con affetto parecchi aneddoti, alcuni anche particolarmente divertenti. 

Come quella volta in cui mi diede un ceffone per aver fatto una battuta sul battesimo. 
Un sabato, durante la dottrina, il parroco ci stava spiegando l'importanza di questo sacramento. E lo faceva con trasporto. Un paio d'anni prima era nato mio fratello minore. Così, con il tipico atteggiamento del moccioso che vuole fare il simpatico del gruppo, ad un certo punto chiosai che era tutto chiaro perché "pure a mio fratello ci ficinu u sciampu". Non l'avessi mai detto! Mi fulminò con un "come ti permetti?" proferito a una quantità di decibel fuori norma e mi mollò un cinculiri che mi convinse immediatamente a riconsiderare la posizione da giullare improvvisato che avevo assunto poco prima.
Certo, erano altri tempi. Molto probabilmente un prete di oggi richiamerebbe un bambino solo verbalmente. Ma Patri Vasta - badate bene - non era affatto un tipo manesco (sinceramente non ricordo nessun altro episodio del genere), tutt'altro: era una persona solitamente mite. Solo che quella volta toccai un concetto troppo elevato e troppo importante per un credente. In Chiesa, cioè nella casa dei credenti. Non dico che fece bene ma riconosco che sicuramente ebbe le sue motivazioni. In gergo tecnico, si direbbe che ci scippau di mani.
E la parte divertente è il ricordo che ne ho oggi. Soprattutto quello della rapida sequenza in cui si consumò il tutto: io che penso di essere u scattru del gruppo e dico la mia a bruciapelo; lui che, assorto nella spiegazione teologica, viene improvvisamente riportato su un piano decisamente terreno, tanto da spalancare gli occhi come se gli avessi dato un pugno nello stomaco; l'accesa risposta che ne segue e la consegna quasi contemporanea della "banconota". Sempre in gergo tecnico: 'o scancila a banca.

Quando ci ripenso, non riesco a non ridere. E provo solo affetto e simpatia nei suoi confronti.

Oppure c'è stata quell'altra volta in cui chiese a noi bambini del catechismo di vendere ognuno un blocchetto di biglietti della Festa Madonna delle Grazie del 15 agosto. Per ogni blocchetto venduto - cento biglietti dal costo di mille lire ciascuno - ci avrebbe riconosciuto un premio di diecimila lire. Wow! A livello commerciale, un venditore professionale direbbe che si tratta di un obiettivo molto motivante. Qualcuno, però, vide l'impresa come una montagna difficile da scalare, che magari fai uno sforzo immane per arrivare in cima e poi, quando sei a pochi passi dal traguardo, inciampi e ruzzoli di nuovo giù. Quindi venne posta la domanda: "Patri Vasta, ma se per caso li vendiamo quasi tutti e, per pochissimi biglietti - quattro o cinque, diciamo -, non arriviamo a completare il blocchetto, il premio ce lo da lo stesso?". Lui, con quel suo fare rassicurante, sguardo sorridente e voce calma (che era, in genere, il suo atteggiamento naturale) rispose: "Se non riuscite a finire il blocchetto e vi rimangono pochissimi tagliandi, state tranquilli: il premio lo riceverete lo stesso". Una risposta accolta con grande favore da parte dei pargoli. Evviva Patri Vasta! Mettiamoci subito al lavoro!
Quell'estate feci letteralmente i numeri per guadagnarmi quelle diecimila lire. Girai parenti, amici, conoscenti - due volte, se necessario - e chiesi pure a mio padre di procacciarmi dei clienti fra i suoi colleghi. Ma non era abbastanza. Allora feci gli straordinari anche il giorno della festa, dato che la consegna ufficiale del blocco era la sera, alla fine della processione. Lo sforzo produsse un risultato invidiabile di novantasette biglietti venduti su cento. Memore delle rassicurazioni del curato, mi recai soddisfatto all'appuntamento fissato per tirare le somme e riscuotere il premio. Esordii dicendo che avevo fatto del mio meglio ma mi erano rimasti solo tre tagliandi..."ma lei ci diceva che andava bene lo stesso no, Patri Vasta?". Lui mi sorrise bonario, mi guardò e mi disse di non preoccuparmi. E con il fare rassicurante di cui sopra cominciò a contare le banconote che mi stava per consegnare: "mille, duemila...cinquemila, seimila, settemila...". Poi il conto si fermò un attimo. Giusto il tempo di staccare i tre biglietti che erano rimasti nel blocchetto che gli avevo appena restituito. Li aggiunse alle banconote e concluse: "e con questi tre fanno diecimila lire precise, bravissimo, ottimo lavoro...".

Quando si dice che le parrocchie di provincia non hanno tante risorse e devono arrangiarsi come possono. Fu in quel momento che maturai la convinzione che al clero non la si fa! Se prendessimo in prestito il lessico calcistico, potremmo raccontare che Patri Vasta era riuscito a mettere a segno nel recupero la rete della vittoria, con una giocata che Maradona scansati: un grande! Che ridere!

Un'altra volta fu tenerissimo. E questo è uno degli episodi che mi rimangono nel cuore. Nel periodo di carnevale organizzò una mattinata di giochi nella piazzetta davanti alla Chiesa. Una specie di gara a prove (di abilità, equilibrio, velocità, ecc.) che conferivano ai partecipanti una serie di punti. Chi, alla fine, avrebbe totalizzato il punteggio più alto sarebbe stato premiato durante la festa in maschera che il parroco aveva organizzato per noi bambini, nel pomeriggio, in sala parrocchiale. Solo che il meccanismo di calcolo dei punti non ci era stato svelato. E secondo me realmente non esisteva neppure: ce lo aveva detto solo per motivarci a dare il massimo. Quella mattina, i partecipanti eravamo pochini, a dire il vero. I due più grandicelli eravamo io e Nino che facevamo categoria a parte. E non me l'ero cavata male ma, in cuor mio, credevo che Nino fosse andato leggermente meglio in alcune prove. Nonostante ci affannassimo sperando di conoscere in anticipo il verdetto della giuria (composta, per l'occasione, da Patri, Nunzio Vasta: uno e trino), u parrinu non proferì parola e si limitò a darci appuntamento al pomeriggio. Alla festa, quindi, dopo i convenevoli di rito (fra patatine, coca-cola e musica) e la consegna di un piccolo dono a tutti gli altri partecipanti, io e Nino ci avvicinammo al prete e, impazienti, lo sollecitammo: "Patri Vasta...ma insomma...chi ha vinto?". Ci guardò con un'espressione di sincera felicità - che ho davanti agli occhi anche qui e ora - con lo sguardo ridanciano che mandava a monte il maldestro tentativo di creare suspense e, piuttosto, rendeva evidente che non vedeva l'ora di darci quell'informazione tanto quanto noi non vedevamo l'ora di riceverla. Rullo di tamburi: "Ha vinto...ha vinto...tu!" indicando Nino, e immediatamente, senza neanche darmi il tempo di rimanere deluso, "...e tu!" indicando anche me. Fu una soddisfazione di quelle che a un bambino fanno bene. Perché gli danno una spinta positiva nel processo di acquisizione di un posto nel mondo che è in corso a quell'età. Dalla gioia, io e Nino ci mettemmo a correre e saltare per la stanza e lo ringraziammo mille volte quando ci consegnò i giocattoli che aveva comprato come premio.

Ora, il giocattolo non lo ricordo per niente, la felicità che mi regalò invece sì, fino all'ultima goccia.



venerdì 25 ottobre 2019

La Sagra della Castagna

La Sagra della Castagna è il fiore all'occhiello di Montagnareale, piccola comunità in provincia di Messina. Ogni anno, da generazioni, la gente del paesino si rimbocca le maniche per vestire a festa il piccolo centro ed offrire qualcosa di diverso - di suggestivo, se vogliamo - per l'ultima domenica di ottobre.
Con l'organizzazione e la realizzazione della sagra, i paesani hanno sempre voluto dimostrare al resto della provincia, e della Sicilia in generale, che ci siamo anche noi. Che anche noi siamo in grado di creare un evento. Che anche noi vogliamo riservare a chi viene a trovarci quell'ospitalità tipicamente siciliana che ci contraddistingue.
I "non più giovani" ricorderanno che, da bambini, nelle settimane precedenti alla sagra c'era fermento e si respirava già l'aria della festa che si sarebbe tenuta l'ultima domenica di ottobre. Di fatto, ragazzi e adulti del paese si trasformavano in artisti (sì, nessuna esagerazione: veri e propri artisti) e dalle loro idee prendevano forma le decorazioni che avrebbero stupito il pubblico a fine mese. Bandiere, archi, colori, composizioni con rami e foglie di castagno ad abbellire le vie del centro. Una volta persino una copia del David di Donatello eretta davanti al bar! D'altro canto, ogni paesino che si rispetti deve essere anche un po' (meravigliosamente) pacchiano, no?
E poi arrivava quella domenica. Alcuni volontari sudavano davanti al fuoco per tutto il pomeriggio e fino a tarda sera per offrire, sempre con il sorriso sulle labbra, caldarroste gratuite alla lunghissima fila di persone in attesa. Altri facevano su e giù per il paese per verificare che tutto fosse a posto con le luci, la musica, le bancarelle, lo smaltimento del traffico. Altri ancora si occupavano della gestione del concorso delle torte e della distribuzione degli assaggi ai visitatori. Niente soldi. Solo passione e orgoglio paesano.
Quello stesso orgoglio con cui, oggi, quelli che hanno dovuto lasciare il paese per cercare fortuna altrove raccontano la Sagra a chi non la conosce.


giovedì 2 novembre 2017

La festa dei Morti

Quando ero bambino, il 2 novembre era un giorno speciale. Non solo perché era la "festa dei morti" e non si andava a scuola per andare a far visita ai propri cari al cimitero ma anche perché in Sicilia tradizione voleva che gli stessi, nella notte fra l'1 e il 2, portassero doni e dolci a chi si era comportato bene e carbone a chi invece era stato "monello". 
Insomma una ricorrenza che andava a tutti gli effetti ad aggiungersi, per modalità e aspettative infantili, al Natale e che, per un bambino siciliano, era addirittura più importante e "remunerativa" della "Befana" (che al massimo, se andava bene, anche a causa della vicinanza col Natale, ti portava qualche dolce o poco più).
Lo scrittore Andrea Camilleri, che la racconta ne Il giorno dei morti, fa parte più della generazione dei miei nonni che di quella dei miei genitori, per cui è ovvio che fra i suoi "tempi" e i miei siano intercorsi parecchi mutamenti nelle usanze e nella mentalità. Ma la "festa dei morti" ha resistito nel tempo ed è rimasta una ricorrenza celebrata per decenni. E di fatto, con le dovute differenze - ogni tradizione che si rispetti viene comunque tramandata ed applicata in contesti sociali figli del proprio tempo - le aspettative, l'emozione e la felicità espressi dall'autore per la "visita" notturna dei propri defunti nella Porto Empedocle degli anni Trenta sono esattamente le stesse che provavo io in attesa dell'arrivo dei miei morti nella provincia messinese a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta.

Narra Camilleri: "Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi". 

I nostri morti, molto lontani dall'immaginario horror di Halloween, non ci facevano affatto paura, anzi ci auguravamo che, oltre ai nonni, venissero eventualmente a farci visita anche altri anziani parenti acquisiti (prozii, bisnonni e chi più ne ha più ne metta), bontà loro! Perché ogni murtittu corrispondeva a un dono.

Prosegue lo scrittore: "Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio".

Noi invece non mettevamo il cesto. Io sicuramente no ma non ricordo nessuno dei miei coetanei che lo facesse. In generale dovevamo solo preoccuparci di andare a letto il prima possibile - poi, più grandicello, avrei capito che dal mio sonno dipendeva l'inizio della preparazione e dell'incartamento dei doni da parte dei miei genitori - e di addormentarci rapidamente. Questa sì, cosa assai più difficile, dato che, come descrive magistralmente Camilleri "eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto"

Ma alla fine, senza rendercene conto, crollavamo. "Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all'alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo"

Ecco, al di là dei singoli dettagli, la descrizione di Camilleri, se sei un quarantenne siciliano, è inebriante, ti entra dentro e ti attraversa, perché sembra che stia parlando proprio di te. In realtà è esattamente ciò che generazioni e generazioni di siciliani, da bambini, facevano, sentivano e provavano la mattina del 2 novembre, appena svegli. 
Quando il peso della notte sugli occhi si dissolveva e mi rendevo conto che era già mattino, scattavo in piedi - che differenza rispetto a quando dovevo alzarmi dal letto per andare a scuola! - e insieme ai miei fratelli cominciavo la "caccia al tesoro". Anche se non c'era il cesto, infatti, la proverbiale giocosità dei morti era rimasta immutata nel corso degli anni. E andare in giro per casa ancora in pigiama in cerca di regali nascosti, e magari impazzire di gioia per aver scovato un pacchetto sotto al materasso, è uno dei miei ricordi infantili più vividi e belli.

"I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall'aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre"

Ogni epoca ha i suoi giocattoli. Ma io ricordo che qualche volta, con malcelato disappunto, ricevevo anche i classici "regali utili" (per esempio un maglione o una tuta o un paio di scarpe) e che mia madre mi diceva che me lo aveva portato il nonno di Montagna(reale) o quello di San Piero (Patti), che mi osservavano da lassù e conoscevano ogni mio desiderio e necessità. Certo, i doni più graditi erano i giocattoli, non ce n'è. Per esempio, ricordo un anno un pupazzetto del wrestling e un altro anno un He-Man per i quali i miei cari defunti meritarono una preghiera aggiuntiva quando, più tardi, andai a trovarli al cimitero (non che pensassi a loro solo materialisticamente ma ero piccolo e, ovvio, diciamo che il giocattolo rappresentava una motivazione in più).

Poi c'erano i dolci che, come racconta ancora Camilleri, "erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza".

Ossa di morto e frutta martorana 2 novembre
Le "ossa di morto" e la "frutta martorana"
Non conosco "il pupo di zucchero" ma, insieme ai regali, non mancava mai 'na guantiera di "ossa di morto", biscottini tipici della commemorazione dei defunti a cui viene data la forma "spaventosa" di osso (Halloween in ogni caso ci faceva un baffo!), e la "frutta martorana", cioè il marzapane di cui parla anche l'autore. In realtà, pur mangiandoli, né io né i miei fratelli ci andavamo matti ma in compenso piacevano tanto ai nostri genitori, quindi i morti continuavano a portarceli ogni anno, a prescindere.

"A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo".

Spesso il 2 novembre c'era un bel sole, per cui, dopo aver portato dei fiori al cimitero e aver detto delle preghiere di ringraziamento ai nostri cari, ci attardavamo con i coetanei nella discesa verso la Chiesa di Santa Caterina o andavamo nella piazzetta o camminavamo per le vie del Paese e ci facevamo a vicenda un dettagliato rapporto su cosa avevamo trovato e su quale parente defunto ce lo avesse portato. Io mi sono sempre reputato molto fortunato perché la mattina, dedicata in genere ai parenti materni, scartavo i regali sia dei morti di mamma che di quelli di papà ma nel pomeriggio, quando ci recavamo al paese di quest'ultimo per far visita stavolta ai congiunti paterni, c'era sempre qualche altro dono che il nonno aveva lasciato per me e i miei fratelli anche a casa della nonna dopo essere passato a casa mia la notte precedente.

"Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine". E aggiungo che, almeno per un giorno, era come riaverli lì con noi, in carne ed ossa.

Per Camilleri, ad un certo punto però, arrivò Babbo Natale: "Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli"

Forse per la generazione dello scrittore agrigentino l'albero di Natale fece progressivamente "smarrire la strada" ai morti ma credo che, in qualche momento della storia successiva e in qualche modo, i defunti questa strada l'avessero alla fine ritrovata. Infatti, la mia generazione, che invece era nata identificando in Babbo Natale, nell'albero e e nelle relative strenne una consolidata tradizione (consumistica e pagana magari, ma pur sempre una tradizione), fu fortunata a poter accogliere nuovamente ogni anno "nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre" questi affettuosi congiunti che ci avevano tanto amato in vita e non si scordavano di noi bambini nemmeno dall'aldilà.

Leggendo la conclusione del racconto di Camilleri, però, ho sentito una sorta di retrogusto di "corsi e ricorsi storici": "Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire".

Sinceramente, da quando non sono più bambino (quantomeno anagraficamente), non so con certezza se la tradizione della "festa dei morti" si sia definitivamente persa o se continui in qualche modo nelle case siciliane. Ma lo dubito fortemente. Oggi, con la globalizzazione, si festeggia Halloween. Se chiedessi ai miei nipotini, oltre all'americanata del "dolcetto o scherzetto", probabilmente nessuno dei due mi saprebbe indicare un'altra "festa" che cade in questo periodo. E alla fine, riflettendoci, mi pare di capire e di sentire la stessa delusione che traspare dalle ultime righe del racconto dell'anziano scrittore. Pare proprio che la strada che i cari estinti percorrevano il 2 novembre per venirci a trovare e per portarci i loro doni - dove per un periodo si erano piantati alberi di Natale - oggi sia stata definitivamente chiusa per far spazio ad una più remunerativa piantagione di zucche.

(i testi di Andrea Camilleri sono tratti dal racconto breve "Il giorno dei Morti", dal libro "Racconti quotidiani")

venerdì 27 ottobre 2017

Luigi Genovese

***Aggiornamento del 23/11/2017***

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Luigi Genovese è un giovane di 21 anni, figlio di un "monarca" della politica messinese, siciliana ed italiana, Fancantonio, ex PD sacrificato da Renzi - "spot elettorale" dell'ex Premier su onestà e presentabilità dei politici - e fatto arrestare dopo relativa autorizzazione della Camera, decisivi i voti del suo stesso partito. Poco dopo Genovese per vendetta passò armi e bagagli a Forza Italia (e, nella logica malata della politica nostrana, ne aveva anche tutte le "ragioni", considerato che, tanto per fare un esempio, un anno dopo il Senato avrebbe negato l'autorizzazione all'arresto di Antonio Azzollini del Nuovo Centrodestra alleato del PD).
Luigi Genovese, per la giovane età, non ha esperienze politiche alle spalle e si presenta alle prossime elezioni regionali siciliane come il più classico "nuovo che avanza": faccia imberbe da bravo ragazzo, occhialini da "secchione", sorrisi, gentilezza e belle parole - quelle sì da politico navigato - quando risponde alle scomode domande che tanti gli fanno su suo padre. Ecco, magari Luigi è proprio un bravo ragazzo che vorrebbe impegnarsi per la sua regione ma - proprio perché, volente o nolente, diventerà presto deputato regionale non per i suoi programmi, per le sue idee o per le sue capacità ma piuttosto perché figlio di cotanto padre ed in virtù del pacchetto di voti di cui questi è "depositario" - almeno ci faccia il piacere di evitarci i patetici tentativi di convincerci del fatto che meriti credito come "entità" politica autonoma credibile e indipendente dal famoso genitore.
Perché "le colpe dei padri non ricadono sui figli", è vero, ma è altrettanto sacrosanto che i figli devono prendersi le proprie responsabilità quando scelgono di diventare strumento dei padri (e magari sono anche contenti di esserlo, per carità) per garantire la conservazione e la continuità degli stessi.

Quindi, quando Luigi Genovese posta un video del genere, è responsabile dell'immagine quantomeno equivoca che ne scaturisce, considerate le vicende giudiziarie del padre sull'argomento.

E chiaramente gli avversari colgono la palla al balzo per sottolineare le estreme contraddizioni evidenziate dai propositi del futuro deputato regionale.

"Perché pare più uno scherzo - scrive il Movimento 5 Stelle Sicilia - Francantonio Genovese ha subito una condanna a 11 anni di carcere per associazione per delinquere, riciclaggio, peculato, frode fiscale e truffa. Con lui sono stati condannati anche il cognato (deputato regionale uscente), la moglie e la cognata. L'accusa ha spiegato come avrebbero sottratto "importanti risorse in un settore strategico e vitale come la formazione professionale, con tanti giovani in cerca di lavoro”. Fondi che, secondo quanto sostenuto dai pm, arrivavano sì dalla Regione ma anche dal Fondo Sociale Europeo.
A guardarlo sorge subito spontanea una risata, amara, ma un attimo dopo, però, il pensiero si incupisce e sorge un dubbio, per noi più che legittimo: non sarà mica un messaggio lanciato all'enorme bacino elettorale del padre? Sapete come è stato ribattezzato? “Mister 20 mila preferenze".

Genovese jr., invece, usa la tattica del "gentil giovine" dalla faccia pulita che chiede solo amore e ripete che sarebbe candidato anche senza quel cognome (certo, ma forse alla carica di capoclasse), che "conta l’entusiasmo" (certo, ma per la sua elezione più quello del padre che il suo) e chiede ai detrattori di valutarne nel merito le idee e le azioni (certo, se solo fossero farina del suo sacco).

La realtà è che se davvero il rampollo volesse essere valutato senza il (dolce) fardello dell'eredità che si porta dietro, dovrebbe fare una cosa molto semplice: rinunciare alla "successione al trono", attendere un paio di giri (diciamo almeno 10/15 anni) e solo allora, quando radersi sarà diventato per lui un problema quotidiano, se ancora avesse aspirazioni politiche, magari potrebbe provarci "mettendosi in proprio". Ecco, solo in quel caso si potrebbe guardare con rispetto e distacco alla sua candidatura.
Altrimenti i paragoni con Cetto Laqualunque continueranno a sprecarsi. Anche se, secondo la meno innovativa delle usanze politiche, temiamo che il ragazzo, dal comodo della poltrona dell'ARS, sopporterà senza troppa fatica qualche presa in giro.