venerdì 25 ottobre 2019

SOTTO L'ALBERO - Ti ricordi?

Scopriamo subito le carte: ci piace il vintage, portiamo nel cuore la semplicità della nostra infanzia e intendiamo celebrarne il ricordo.
D'accordo: a qualcuno tutto questo potrebbe sembrare eccessivamente malinconico. Potremmo essere accusati di guardare troppo al passato invece di vivere il presente. Ma ci sentiamo di rassicurare i dubbiosi: al di là della fisiologica nostalgia di quando avevamo qualche anno in meno e nonostante le preoccupazioni che la quotidianità riserva quando si è adulti (insieme a qualche capello bianco in più), i nostri piedi rimangono ben piantati nel "qui e ora"
Non ripieghiamo verso gli anni che furono per sfuggire a un presente che delude, come facevano intellettuali ed artisti neoclassici. (Anche perché la nostra massima realizzazione artistica è stata la poesia declamata alla recita di Natale). Siamo felici di quello che abbiamo ottenuto fin qui, non abbiamo particolari rimpianti e, oltretutto, abbiamo ancora voglia di costruirci un bel pezzo di vita. Ma ci godiamo anche il ricordo di "una volta".
Oltre a un esercizio di piacere, però, che cos'è per noi il ricordo? È un modo per non dimenticare che sotto quell'albero siamo sempre stati e siamo ancora tutti "paesani", membri di una comunità come ce ne sono tante al mondo ma, allo stesso tempo, unica e speciale, con i suoi pregi e i suoi difetti. Una comunità ridimensionata nelle presenze, nel corso dei decenni, dalle circostanze dell'esistenza ma idealmente sempre popolata dall'affetto di decine di cuori vicini e lontani.
Che ogni tanto si ritrovano ancora proprio sotto l'albero per ricordare e raccontare. Sorridere e magari anche commuoversi. Per essere ancora "paesani".


lunedì 10 giugno 2019

Italia - Australia


Ieri, la straordinaria vittoria delle azzurre al 95' contro l'Australia, nell'esordio dei mondiali femminili, ha riportato alla mente un'altra vittoria, contro la stessa nazionale, nei mondiali maschili del 2006, che ci avrebbe lanciato poi nella cavalcata verso la conquista della coppa. In quel caso, a regolare i conti con gli australiani era stato un rigore trasformato da Francesco Totti, dopo una partita di grande sofferenza, giocata in dieci uomini per quasi tutto il secondo tempo.

Mentre tutte le altre partite di quel torneo le vidi a Milano insieme ad alcuni amici nell'appartamento in Porta Romana dove vivevo allora, festeggiando la vittoria finale in piazza del Duomo in mezzo alla marea di tifosi in visibilio, quella gara in particolare la ricordo per essere stata l'unica vista in Sicilia, insieme alla mia famiglia. Mio padre stava molto male e io ero tornato qualche giorno per andarlo a trovare. Quell'anno ero stato in Sicilia più volte, inventandomi ogni genere di scusa, per dissimulare il fatto che ci andavo principalmente per lui. Forse anche in quel caso c'era stata qualche ragione secondaria per il mio viaggio, ma non ci giurerei. La mia mente era decisamente concentrata su altro all'epoca.

Vedemmo la partita in due stanze, per stare più larghi. Faceva parecchio caldo. Io facevo la spola fra la cucina, dove c'era mio fratello, e la mia camera da letto, dove c'era il resto della famiglia. Ricordo una tensione a mille. E ovviamente non dipendeva tutta dalla partita. Ma quelle due ore furono un momento di evasione dai nostri attuali problemi, per questo quel match mi è rimasto nel cuore. Compresa, ovviamente, l'esultanza sul rigore di Totti al 95'. Fu tanto liberatoria e sinceramente gioiosa.

Il bello del calcio sono i momenti che rimangono nella storia e nell'immaginario comune, ai quali ognuno di noi lega indissolubilmente ricordi ed emozioni personali. Ecco, io ricordo vividamente quell'Italia-Australia come uno degli ultimi veri momenti di felicità condivisi con mio padre. E per questo me lo tengo stretto.



lunedì 9 luglio 2018

Vampiri a Roma: il concerto degli Hollywood Vampires

il concerto degli Hollywood Vampires al Rock in Roma
Gli Hollywood Vampires in azione al Rock in Roma 2018
Oltre al giorno e alla notte, alla vita e alla morte, al sole che sorge e tramonta, c'è un'altra grande certezza universale: Alice Cooper non morirà mai. Al massimo potrà farlo fisicamente (e speriamo che accada il più tardi possibile) ma in quel caso sono certo che tornerà come uno zombie o magari terrorizzerà i suoi fan infestando, da fantasma, qualche grande arena.
Ad ogni modo, qualunque cosa faccia, Vincent Damon Furnier trasuda "figaggine" da tutti i pori: dai costumi di scena, bastone e cilindro dark, alla solita voce graffiante ed ammiccante alle pose sul palco.
Per esempio, dal 2015 si è messo in testa di portare avanti questo progetto del "super-gruppo" rock Hollywood Vampires, con Joe Perry (Aerosmith) e l'attore Johnny Depp e, tre anni dopo, "siamo diventati una band", come lui stesso dice a conclusione del concerto tenutosi al Rock in Roma, ultima data del tour che ha toccato Nord America, Europa e Russia. E che band! Un'ora e mezzo di grande musica, con un'alternanza di brani originali della band e di grandi classici del rock.

Johnny Depp al Rock in Roma
Johnny Depp
Il pubblico era composto per metà da rockettari e per metà da ragazzine e meno-ragazzine urlanti ad ogni movimento/sguardo/saluto del bel Depp, che oltre ad essere "un fantastico chitarrista" (parole di Cooper), sembra nato per fare la rockstar e se la gode come non mai, girovagando sul palco con la sua chitarra e raccogliendo e appendendo all'asta del microfono i reggiseni che le fan di cui sopra gli lanciano costantemente. Ma, come detto, Johnny suona (bene) e canta anche (discretamente), in particolar modo As Bad As I Am (scritta da lui stesso), People Who Died (cover di The Jim Carroll Band) - corredata da una carrellata di immagini di tutti i musicisti amici dei Vampires scomparsi, nello schermo alle sue spalle - e addirittura la bellissima Heroes di David Bowie.

Se da un lato, il nome Hollywood Vampires rende omaggio a un club di celebri rockstar che si incontravano regolarmente per assumere alcol e droghe e rimanevano svegli tutta la notte come i vampiri, dall'altro Alice Cooper (che di questo club era il presidente), superati i propri problemi di alcolismo a metà degli anni Ottanta, ha decisamente imboccato una strada molto più salutistica, e la forma che sfoggia a 70 anni suonati lo dimostra. 

L'ironica My Dead Drunk Friends è dedicata proprio a tutti quegli amici morti troppo presto per l’abuso di droghe ed alcool, come Jimi Hendrix o Jim Morrison o Keith Moon, oppure scomparsi recentemente, dopo essere stati - fra le altre cose - dei gran bevitori in vita, come Lemmy o Chris Cornell

Anche Lemmy dei Motorhead è stato ricordato dai Vampires

Sin dai primi brani, i "vampiri" mettono le cose in chiaro, con le "originali" I Want My Now e Raise the Dead che aprono il concerto. Poi ci sono le cover che spaziano da Doors agli Who agli AC-DC (prima di The Jack, Alice ricorda Malcom Young) passando per i Motorhead, gli Aerosmith e lo stesso Alice Cooper. "Nel 1964 [o forse era 1968, non me lo ricordo, nda.] andai a Los Angeles e lì incontrai un succhiasangue di nome Jim Morrison", dice il maestro. Alle sue spalle compare una foto del leader dei Doors ed è Five to One/Break On Through (to the Other Side).
Incredibile ma vero: Cooper a parte, il mio personalissimo premio per il momento più esaltante della serata se lo becca il bassista Chris Wyse per la sua cover di Ace Of Spades. Sarà che ho un debole per i Motorhead, sarà che quella canzone è l'adrenalina fatta musica, ma la prestazione merita un voto altissimo. E poi c'è Joe Perry che fa l'assolo suonando la chitarra da dietro la testa: quanto è ROCK tutto ciò!
La chiusura di una grande serata è riservata a School's Out, mixata, come nell'album, con Another Brick in the Wall dei Pink Floyd. Mentre palloni giganti con il logo della band volano sulle teste dei quasi tremila presenti all'Auditorium Parco della Musica - posto bellissimo, fra l'altro - il gran cerimoniere Cooper presenta uno ad uno i componenti della band, in un tripudio di urla isteriche quando le luci si accendono su Johnny Depp. Io, invece, avevo occhi solo per il "giovane" Alice che, congedando i suoi "vampiri", apprezza: "ci piace molto il sangue italiano!".


venerdì 16 febbraio 2018

Io, Nunzio, le compilation e la radio di Sebastiano

Non c'erano ancora gli mp3, non c'erano le web-radio, a stento si usavano i compact disk. La musica la registravamo in cassetta, magari da 33 giri dal suono scricchiolante oppure l'ascoltavamo alla radio, preferibilmente su stazioni locali che nella provincia siciliana si sentivano meglio di alcune emittenti nazionali.
Meraviglioso il periodo delle radio libere! Spesso mancava la competenza ma era uno stupendo insieme di creatività e comicità. Tutti (o quasi) potevano improvvisarsi dj in una piccola radio locale: essere in grado di mettere una dietro l'altra due parole di senso compiuto, possedere proprietà di linguaggio e avere qualcosa da dire non sempre erano caratteristiche necessarie per mettersi davanti ad un microfono. Il risultato era spesso improbabile, eppure i programmi di dediche, gettonatissimi, erano molto seguiti. Perché si poteva dire quello che oggi viene affidato ai social network.
Poi - per carità - non sempre il risultato era farsesco. C'era anche chi, nel suo piccolo, aveva "voce" e sapeva disimpegnarsi abbastanza bene quando c'era da presentare dischi e cantanti in diretta.

Uno di questi era Sebastiano - in paese conosciuto come Bastianu - che, dopo aver fatto lo speaker a Radio Monte Ilici, aveva deciso di mettersi in proprio aprendo Radio Stereo Time.
Cioè, per capirci meglio: negli anni Novanta, in un paesino di appena un migliaio di anime, c'erano ben due emittenti locali. Stupefacente.
Io e Sebastiano eravamo vicini di casa e, soprattutto, siamo sempre stati come di famiglia. La sede della radio era proprio sotto casa sua. Dentro, lo spazio era piccolino: ci entravano a stento due piatti per i dischi, il microfono e una sedia girevole e poi qualche scaffale per i vinili. Ma non avevo mai visto niente del genere e a me sembrava un'astronave. Sin dall'apertura dell'emittente, quando ero ancora un bambino, Sebastiano mi aveva sempre permesso di stare lì a guardare lui e gli altri ragazzi che trasmettevano, a patto che me ne stessi buono e non disturbassi. E lì dentro ci passavo le ore. Guardavo e riguardavo le copertine dei dischi, uno per uno. Osservavo i ragazzi che preparavano sul piatto la prossima canzone (a volte azzardavo anche delle richieste, soprattutto canzoni degli Europe), poi si mettevano la cuffia, alzavano il cursore e cominciavano a parlare. Ero letteralmente rapito dalla magia della radio.
Qualche anno dopo, ormai adolescente, forse perché nel frattempo ero diventato parte dell'arredamento, Bastianu mi diede la mia chance. Dopo tanto osservare, avendo imparato a memoria il funzionamento del mixer, avrei potuto perfettamente occuparmi di fare una "selezione musicale". In sostanza, chi non sapeva o non voleva o non poteva - quest'ultimo era il mio caso - parlare al microfono, passava solo i dischi e ogni tanto diceva "state ascoltando Radio Stereo Time sui 95.4 e i 97.7 in FM". Ero in estasi. La mia prima "selezione musicale" durò oltre tre ore: un brano dopo l'altro misi sul piatto tutto ciò che mi piaceva di più. E chi si scollava da quella postazione tanto agognata!
In seguito arrivò anche la "promozione": i miei "state ascoltando..." dovevano aver fatto presa sul pubblico perché chiesi e ottenni di poter condurre un programma musicale tutto mio, con tanto di presentazione delle canzoni e tutto il resto. All'inizio, a dire il vero, si trattò di una co-conduzione con il più esperto Nino, uno dei disk-jockey più quotati dell'intero paese (no, non Paese nel senso di Italia, paese proprio nel senso del nostro paesino). Da lì, il passo a programmi di approfondimento sportivo - approfondimento: si fa per dire - fu breve. Il sabato o la domenica pomeriggio con Giovanni e le sue statistiche scritte a penna su un quaderno di scuola, durante la settimana con Francesco in studio e Luca inviato a seguire le partite di coppa in collegamento (da casa sua). Ah, la creatività e gli amici nelle radio libere non mancavano mai!

Oltre al posto dove fare il programma - come si diceva allora quando si trasmetteva in diretta -, Radio Stereo Time era anche una grande fonte di dischi e Sebastiano, bontà sua, mi permetteva pure di  registrare le mie cassettine con le novità che arrivavano periodicamente. Le compilation erano il mio forte. La musica rock la mia fissazione adolescenziale (che non si è mai sopita, in realtà).
Un giorno, al mare, parlando di dischi e gruppi con Nunzio, ci venne un'illuminazione! Avremmo creato una serie di raccolte, rigorosamente registrate in cassetta, selezionando pezzi rock da altri nastri (molti) e cd (pochi) in nostro possesso e dai vinili che Sebastiano mi lasciava registrare in radio. L'idea c'era. Ora serviva un nome, un brand con cui marchiare le nostre collezioni.
Ci pensammo su per un po' e poi Nunzio, riferendosi al contenuto, fece: "ci mittemmu musica a mazziari" (tradotto, per il resto d'Italia: in codeste musicassette inseriremo musica molto potente). Bingo! Gli risposi: "giustu, musica pi sbattiri a testa 'nto muru!" (giusto, musica talmente bella che, ogni volta che l'ascolteremo, ci provocherà accese emozioni!, ndr). E infine, mettendoci quell'inglesismo che fa sempre figo, conclusi: "chiamiamola Hit The Head Wall Wall compilation", che è più o meno la "traduzione" letterale del siciliano sbatti a testa mura mura (colpisci ripetutamente la parete con il capo, ndr).
Ora, dovete sapere che Nunzio è probabilmente uno dei più puntigliosi ed instancabili collezionisti dell'universo. Collezioni di musica, film, riviste, album: l'importante è che si raggiunga sempre la perfezione. Per esempio, se dopo aver registrato un film in vhs, riguardandolo, si accorgeva di una impercettibile (all'occhio umano ma non al suo!) riga in una frazione di secondo del video, l'operazione era automaticamente da ripetere, anche più volte, se necessario.
Pertanto, sin dall'inizio ero consapevole che selezionare i brani da includere nel nostro progetto sarebbe stato un duro lavoro, ma accettai la sfida.
Passammo l'intera estate del 1994 ad analizzare, valutare, soppesare, ascoltare, calcolare. Se pensavate che fare una cassetta fosse più semplice, è chiaro che non avete mai conosciuto Nunzio. In spiaggia, al pomeriggio, facevamo il punto sui nostri progressi: quel pezzo va bene, quello no, quel gruppo sì, quell'altro forse. La sera, invece, spesso andavamo in radio e, mentre io mi dilettavo in qualche selezione musicale, Nunzio setacciava gli scaffali dei vinili come un cane da tartufo in cerca di canzoni che facessero al caso nostro.
A fine agosto, eravamo finalmente pronti: Hit The Head Wall Wall compilation part 1 avrebbe visto la luce. Sì perché, cercando cercando, avevamo raccolto materiale per riempire almeno tre o quattro cassette. Il 6 settembre del 1994, come indicato sulla copertina dello stesso nastro, fu il giorno in cui Nunzio si chiuse in sala di registrazione (cioè la sua camera da letto, dove aveva lo stereo) e procedette all'incisione. La leggenda narra che, per fare un lavoro perfetto (e come, se no?) dei suoi, si fosse chiuso a chiave e non fosse uscito per tutto il giorno, neanche per mangiare. Alla sera, con le due prime (e uniche) copie editate, la mia e la sua cassetta, ci incontrammo in piazza per condividere il tesoro.

Valutando oggi quel lavoro, che ai tempi ci sembrava obiettivamente colossale, possiamo concludere che tre mesi di ricerche, valutazioni e selezioni produssero un (meraviglioso) minestrone di brani rock basato su un avanzato metodo bibliografico, riassumibile con la seguente formula: chista mi piaci, l'haiu, c'ha mettu (gradisco la canzone, quindi dato che ho a disposizione il disco sorgente, la converto sul nastro, ndr). E quindi, per esempio, i Rolling Stones o gli AC-DC, mostri sacri del rock, magari finivano per ritrovarsi nella stessa compilation con i meno quotati Ted Nugent o Blue Öyster Cult. Oppure, nonostante avesse cantato fior fiore di capolavori con i Led Zeppelin, di Robert Plant eravamo riusciti a reperire solo un singolo da solista, carino ma certamente non indimenticabile. O ancora, se i brani selezionati per la compilation non riempivano l'intero spazio a disposizione sul nastro, si passava al metodo ci ni mettu nautra (rimpinguo il contenuto con un'ulteriore opera di uno degli artisti presenti), in genere aggiungendo un altro pezzo tratto dallo stesso album da cui, per un determinato cantante o gruppo, erano stati selezionati gli altri due o tre già inseriti nella compilation.


Fatta la cassetta, era arrivato il momento di sperimentarne il suono. Ma dove? Come? E con chi?
Ci guardammo intorno. C'erano solo degli anziani seduti davanti al bar e un paio di bambini che giocavano in piazza. Di certo, nessuno di loro era utile alla nostra causa. Ad un certo punto, però, notammo Nino (il  mio ormai ex-co-conduttore), che aveva parcheggiato la sua Fiat Uno. Nonostante qualche resistenza, riuscimmo a convincerlo a farci provare la compilation nella sua autoradio. Nino ha sempre avuto un cuore d'oro. A noi si unì anche Salvatore, che era arrivato mentre eravamo intenti nell'opera di persuasione di Nino.
Quella del 6 settembre 1994 la ricordo ancora come una serata memorabile. La musica a palla sulla Fiat Uno, che più tamarri di così impossibile. Nino che - bastian contrario - si lamentava costantemente della musica, nonostante intimamente in realtà gli piacesse. Salvatore che apprezzava ma che, soffrendo il volume un po' troppo elevato, con voce stridula, ogni tanto urlava maronnaaaa. Nunzio e io che ci ci esaltavamo a ogni nota, davvero soddisfatti del nostro lavoro.
Alla prima Hit The Head sarebbero seguite, dopo ulteriori fatiche, altre due raccolte con lo stesso titolo (la terza la sottotitolammo addirittura "Progressive Alteration", giusto per farla sembrare ancora più potente).

Era quello un tempo in cui tutti potevano fare la radio e, con due vinili e una cassetta (e la Fiat Uno di Nino), era possibile creare colonne sonore indelebili.

venerdì 2 febbraio 2018

La storia del linciaggio di New Orleans: quando anche noi eravamo "sporchi negri"

Oggi come non mai, pruriti razzisti e finti patriottismi sono al centro della discussione politica italiana ed internazionale e solleticano pericolosamente l'immaginario di parte della nostra società. I Salvini o i Trump sono predicatori d'odio ai fini elettorali e, purtroppo, funzionano perché offrono a chi sta peggio una valvola di sfogo, un diversivo su cui scaricare le frustrazioni della propria quotidiana miseria. Come se far star male qualcun altro potesse far star bene noi stessi.
In Italia, prima era Nord contro Sud (lo è ancora ma se ne parla molto meno in nome di un nemico comune), ora è italiani contro immigrati. In America, bontà loro, non hanno mai smesso di discriminare neri e latinos, ma da un po' di tempo a questa parte hanno decisamente rinvigorito la fiamma sotto alla graticola. La storia si ripete. Sempre.
I fascio-leghisti probabilmente dimenticano - o peggio, non hanno mai studiato - i flussi migratori italiani. Soprattutto quelli verso le Americhe di fine Ottocento e inizio Novecento, quando i nostri connazionali venivano considerati alla stregua, se non peggiori, dei tanto vituperati migranti odierni.
Sì perché si fa presto, oggi, a dire che gli Italian-Americans (malavita a parte) occupano posizioni di primissimo piano nella società statunitense. La storia ci dice che non è stato sempre così.
Per esempio, sono certo che i moderni xenofobi di casa nostra non sappiano che il più grave linciaggio di massa della storia degli Stati Uniti avvenne ai danni di italiani, a New Orleans, nel 1891.
Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, circa 10 milioni di italiani da tutte le regioni del bel paese emigrarono verso gli Stati Uniti. Grazie a una rotta navale che la collegava con Palermo, moltissimi siciliani arrivarono a New Orleans. Come in molte altre città americane, anche qui, gli immigrati italiani si sistemarono in un quartiere della città che prese il nome di Little Palermo. Di fatto, l'intenzione della maggior parte di loro era quella di lavorare in America per qualche anno e, dopo aver messo da parte dei soldi, di fare ritorno in Italia dalle proprie famiglie. Pertanto, l'integrazione non rappresentava affatto una priorità.
Strano: questa storia mi sembra di averla già vista da qualche altra parte...

Italiani non ammessi fra il personale delle aziende americane nell'Ottocento
"Italiani non ammessi", recitano le condizioni di un appalto pubblico

Ma torniamo alla vicenda di cui sopra.
Già nel 1888, il quotidiano locale The Mascot aveva pubblicato una vignetta dal titolo "Per quanto riguarda la popolazione italiana" che raffigurava alcune scene di vita degli immigrati italiani, intenti a bighellonare e a dar fastidio ai passanti, rinchiusi a dormire in stanze sovraffollate e dediti alle risse con coltelli e bastoni, "un rilassante passatempo pomeridiano". E dire che, fra i nostri connazionali, c'era anche un sacco di gente che si spaccava la schiena di onesto lavoro!

Se i patrioti nostrani leggessero di questa vicenda, già mi immagino il moto di indignazione per la meschina generalizzazione! Per fortuna che non ne hanno il tempo, così occupati a fare di tutta l'erba cattiva - africana o islamica o "zingara" che sia - un fascio (sì, il gioco di parole è voluto).

Nella vignetta veniva anche data la ricetta per risolvere il problema: "liberarsi di loro" uccidendoli oppure manganellarli e arrestarli. Colpevoli a prescindere. Tutti. E tanti saluti allo stato di diritto.

Il quotidiano di New Orleans The Mascot pubblicò nel 1888 una vignetta razzista contro gli immigrati italiani
La vignetta di The Mascot

Il sentimento anti-italiano era così diffuso che nel 1891 la vignetta del The Mascot, in un certo senso, prese vita. La scintilla che fece divampare l'incendio - era solo questione di tempo, come abbiamo visto - fu l'omicidio del capo della polizia di New Orleans, David Hennessy, avvenuto alla fine dell'anno precedente.
Hennessy avrebbe dovuto testimoniare in tribunale su una faida tra due famiglie mafiose rivali, i Provenzano (un nome una garanzia!) e i Matranga, che si contendevano il controllo del porto. A New Orleans la corruzione imperversava e Hennessy non faceva eccezione. Il suo ruolo gli permetteva di avere le mani in pasta un po' dappertutto in città. Soprattutto, intascava tangenti ed era risaputo che fosse a libro paga dei Provenzano, nonostante fosse irlandese e i rapporti fra italiani ed irlandesi, a quei tempi, fossero notoriamente molto tesi. Ma - come dicevano i latini - pecunia non olet.

Si diceva che, al processo, Hennessy avrebbe scagionato i Provenzano, implicando invece i Matranga e probabilmente per questa ragione, la notte del 15 ottobre, mentre rientrava a casa, venne colpito dalle fucilate esplose da uomini non identificati. L'amico capitano O'Connor, accorso dopo avere sentito gli spari, avrebbe poi detto che Hennessy gli aveva sussurrato la frase "Dagos did it", cioè sono stati i dagos, slang dispregiativo con cui venivano genericamente indicati gli immigrati italiani.
Non importa che l'unico ad aver sentito quella frase fosse stato O'Connor né che il poliziotto - tornato cosciente in ospedale prima di peggiorare improvvisamente e morire la mattina seguente - non l'avesse ripetuta a nessun altro, addirittura neanche a un giudice che gli aveva fatto visita in ospedale nella notte.

Ma non fu necessario. Il pregiudizio arriva a sentenza senza che vi sia alcun processo. È l'intolleranza, baby.

La stampa locale fece da cassa di risonanza al peggior razzismo. Il sindaco di New Orleans, Joseph Shakespeare, scrisse che "il clima mite, la facilità con la quale ci si può assicurare il necessario per vivere e la natura poliglotta dei suoi abitanti, hanno fatto sì che, sfortunatamente, questa parte del Paese sia stata scelta dai disoccupati e dagli emigranti appartenenti alla peggiore specie di europei, i meridionali italiani...gli individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistano al mondo, peggiori dei negri e più indesiderabili dei polacchi...Dobbiamo dare a questa gente una lezione che dovranno ricordare per sempre".
Partì una vera e propria caccia razziale. Dopo una massiccia operazione per cui la polizia aveva l'ordine di arrestare ogni italiano sospetto, si arrivò al processo per diciannove imputati, undici dei quali accusati di aver avuto parte attiva nell'omicidio. Tra di loro c'erano i boss Macheca e Matranga ed altri malavitosi, ma anche dei poveri lavoratori che non avevano mai avuto problemi con la legge né legame alcuno con la criminalità. 
Nel mese di marzo del 1891, alla fine di un controverso dibattimento caratterizzato da prove esili e ben sessantasette testimoni d´accusa - ma il famigerato capitano O'Connor non venne neanche ascoltato durante le udienze! - la giuria popolare emise un verdetto di non colpevolezza per otto degli undici imputati, e non riuscì a raggiungere un verdetto unanime per tutti gli altri. 

Ma il razzismo non sente ragioni e non conosce diritti

Con una forzatura giuridica, tutti gli arrestati vennero trattenuti in carcere. Non fu sufficiente a placare la rabbia intollerante della popolazione.
Avete presente quando qualcuno commette un reato e, se è straniero, da noi parte il solito tam-tam delle ronde, dell'Italia-agli-italiani e degli immigrati-tutti-delinquenti? Ecco, il giorno dopo a New Orleans, i giornali pubblicarono questo comunicato: "Tutti i bravi cittadini sono invitati a partecipare all'assemblea convocata sabato 14 marzo alle 10 alla Clay Statue, per prendere provvedimenti rispetto al fallimento della giustizia nel caso Hennessy. Arrivare pronti all'azione"
Il 14 marzo, dunque, circa 3.000 persone si recarono alla prigione. La folla inferocita abbatté le porte e uccise barbaramente undici persone di origine italiana, alcune di loro neanche legate al processo, mostrando poi i corpi martoriati come trofei di caccia. Uno dei capi della sommossa fu John M. Parker, uno che oggi in Italia sarebbe conteso da Lega e Forza Nuova - per dire - ma che ai tempi era considerato un sincero democratico, tanto da diventare successivamente Governatore della Louisiana ed affermare, nel 1911, che gli italiani sono "solo un po' peggio dei negri, essendo forse anche più sporchi nelle proprie abitudini, più fuorilegge e più infidi"

Ma in effetti - pensandoci bene - anche Salvini da noi viene considerato un sincero democratico.

E come in tutte le migliori storie di discriminazione, i fatti di New Orleans vennero sdoganati come una giusta reazione contro chi se l'era cercata e meritata. Teddy Roosevelt, futuro Presidente degli Stati Uniti, disse che aver dato "una lezione a quella razza" era stata "una buona cosa" Il New York Times definì le vittime del linciaggio come "siciliani furtivi e codardi, discendenti di banditi e assassini". Un altro editoriale affermò che "la legge del linciaggio era l'unica possibile per la gente di New Orleans". E via andare con il festival dell'odio razziale.

Si aprì una complessa crisi diplomatica tra Italia e Stati Uniti. L'ambasciatore italiano Fava venne richiamato dal presidente del Consiglio Starrabba di Rudinì. Il problema è che i diplomatici del Regno d'Italia erano nobili mentre le persone di cui dovevano occuparsi erano dagos, una razza inferiore, scuri di pelle, quindi trattati dagli americani come i negri. Insomma, gente per cui indignarsi non aveva molto senso. D'altro canto le teorie di celebrati pseudo-scienziati del tempo, come Cesare Lombroso, giustificavano totalmente queste considerazioni.
Per cui l'ambasciatore fece presto ritorno negli USA e la questione fu chiusa - non senza le proteste del Congresso americano - con un indennizzo pagato alle famiglie delle vittime con i fondi a disposizione del Presidente.

Col tempo, però, le vittime hanno spesso la possibilità di trasformarsi in carnefici. Basta solo attendere il proprio turno. E questo è quello che è successo anche a noi italiani. E - se vogliamo entrare ancor più nel dettaglio - questo è successo soprattutto ai meridionali che prima venivano presi a pesci in faccia dai leghisti e oggi plaudono al Salvini versione patriota, eroico argine all'usurpatore straniero.
Ci sarà sempre, per ogni razza, società o individuo, l'occasione di trovare uno più debole su cui scaricare le frustrazioni accumulate a causa della crisi economica o delle proprie sfortune o dei soprusi di chi esercita il potere. E, soprattutto, a soffiare su ogni fuocherello d'odio, ci sarà sempre un "salvatore della patria" su cui riporre le proprie vane speranze di riscatto. Per sentirsi un po' meno dagos e un po' più "bianchi".

lunedì 8 gennaio 2018

#L8ioLotto, la protesta dei #DocentiMagistrali di tutta Italia a Roma


Migliaia di maestre e maestri della scuola dell'infanzia e primaria hanno scioperato oggi per aderire alla protesta nazionale contro la decisione del Consiglio di Stato di negare ai precari diplomati magistrali pre 2001/02 la presenza nelle Graduatorie a Esaurimento (GaE).

Con loro varie associazioni e sigle: SAESEMida Precari, ADIDA, La voce dei giusti, Cobas, CUB, AniefSNALS e Gilda.
"Speravamo nella solidarietà anche dei colleghi di ruolo e non, in questa battaglia, per la quale sarebbero dovuti starci accanto" - ha commentato una docente - "ma purtroppo non è stato così".
Non sono mancate le critiche anche ai sindacati confederati.
Una portavoce dell'Anief ha invece espresso la sua soddisfazione perché "volevamo dare un segnale forte al Ministero e credo che oggi ci siamo riusciti. Molte scuole sono rimaste chiuse. I diplomati magistrali sono con noi in piazza e oggi si deve prendere una posizione definitiva. Per noi la soluzione è quella di riaprire le graduatorie ad esaurimento per chi ha l'abilitazione, senza fare concorsi o fasi transitorie".
E proprio una delegazione dell'Anief e dei Cobas è stata ricevuta in mattinata al Miur. La richiesta al ministero è quella di un decreto legge urgente per riaprire le graduatorie ad esaurimento per il personale docente abilitato e confermare nei ruoli i docenti già assunti con riserva. Così da garantire la continuità didattica ma anche l'assunzione per merito, la parità' di trattamento, la ragionevolezza nell'incontro tra domanda e offerta di lavoro nei due ambiti scolastici. Anche perché - ed è forse la cosa più stupefacente di questa vicenda - "in molte province le GaE sono esaurite, pure in presenza di personale abilitato a cui non e' stato consentito l'inserimento. Mentre in molti casi, gli stessi 44.000 diplomati magistrali inseriti con riserva nelle GaE e i 6.000 assunti in ruolo con riserva, quand'anche saranno licenziati per effetto del giudizio di merito orientato dalla sentenza plenaria, si ritroverebbero dopo un 'balletto' di supplenze a essere richiamati come precari, con grave danno alla continuita' didattica", come sostenuto da Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief.

Comunque vada a finire, rimane evidente una contraddizione tipicamente italiana: questi insegnanti servono al sistema formativo del nostro Paese (anche solo valutando la questione in termini strettamente numerici) e hanno maturato ormai una lunga esperienza sul campo (che qualunque datore di lavoro, diverso dallo Stato, considererebbe preziosissima in termini di qualità e rendimento). Ma si trovano costretti a una corsa ad ostacoli, in questa "guerra fra poveri" con altri colleghi.

Tutto bene. L'importante è che poi non ci si lamenti della decadenza della scuola pubblica. 






sabato 6 gennaio 2018

#DocentiMagistrali: l'odissea degli insegnanti diplomati

Gli striscioni di protesta che gli insegnanti diplomati magistrali porteranno a Roma
La protesta dei docenti magistrali
In precedenza, ben cinque sentenze del Consiglio di Stato avevano inserito gli insegnanti in possesso di un diploma magistrale conseguito entro il 2001/2002 nelle Graduatorie a Esaurimento (cioè le graduatorie a cui sono iscritti i docenti in possesso di abilitazione all'insegnamento e che sono utilizzate per l’assunzione in ruolo). Poi, la "beffa". Lo scorso 20 dicembre, infatti, lo stesso Consiglio di Stato a sezioni riunite - con una giravolta - ha smentito se stesso e ha deciso in via definitiva che i diplomati magistrali pre 2000/01 dovranno essere esclusi dalle GaE ed inseriti nelle Graduatorie d’istituto, quelle che vengono utilizzate per le supplenze annuali e temporanee.

Una sentenza che - spiegano i Cobas, Comitati di Base della Scuola - “va contro tutte le precedenti sentenze che in questi anni avevano dato ragione a decine di migliaia di docenti che adesso si vedono negare persino il diritto all'inserimento nelle Graduatorie a Esaurimento, e che vengono retrocessi a docenti di serie C. Questa sentenza pone drammatici problemi, professionali ed umani, ai diplomati magistrali. Molti/e di loro hanno avuto nomine annuali dalle GAE, in diversi/e sono già stati/e immessi in ruolo, e ora, oltre alla perdita del posto di lavoro, rischiano di ritrovarsi improvvisamente reinseriti in seconda fascia o, secondo un’interpretazione ancora più penalizzante della sentenza, addirittura in terza fascia. La situazione è molto delicata perché - continuano - “se i tribunali dovessero far decadere tutte le supplenze e le immissioni in ruolo, la scuola primaria e quella dell’infanzia entrerebbero in un caos totale”.

La decisione del Consiglio di Stato costringe i docenti penalizzati dalla sentenza "a riabilitarci ancora una volta attraverso corsi a pagamento organizzati da non si sa chi - denuncia una di loro, esprimendo la propria delusione - siamo condannati al precariato. Ho già dato tutta la mia giovinezza, adesso basta!".

E mentre la politica sta a guardare, si consuma l'ennesima "guerra fra poveri": da una parte i maestri e le maestre che, con il vecchio titolo preso entro il 2001/2002, insegnano nella scuola con impegno e dedizione già da parecchi anni in condizioni di precariato; dall'altra gli aspiranti maestri e maestre d’infanzia che, esclusi dalle assunzioni della Buona Scuola, hanno attaccato l’inserimento dei magistrali a seguito delle precedenti sentenze amministrative.

L'hashtag lanciato dai docenti colpiti dalla sentenza
In sostanza, invece di fare fronte comune contro le inadempienze di chi dovrebbe risolvere la situazione di costante incertezza in cui versa il corpo docente del nostro Paese - che, fino a prova contraria, dovrebbe essere una risorsa su cui puntare e non un problema - si preferisce questo approccio di "mors tua vita mea". Tutto ciò, non solo si colloca agli antipodi della solidarietà che dovrebbe esserci fra lavoratori (oltretutto, della stessa categoria), ma danneggia l'intero sistema formativo italiano, considerato che, in questa situazione di confusione ed incertezza, non ci sono le condizioni per garantire la continuità delle lezioni e della gestione degli alunni.
I precari diplomati magistrali, e le associazioni a sostegno, si ritroveranno a Roma il prossimo 8 gennaio per una manifestazione di protesta.

"Io sto lavorando da anni senza demerito alcuno, mai, sempre a disposizione di tutto e tutti", conclude la docente. Una perfetta sintesi di questo nuovo capitolo che una classe politica inetta - nessuno escluso - sta scrivendo nella lunga storia di mortificazione della scuola italiana.

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